Il presidente che sogna da statista fa i conti con la rivolta sulle piazze
di Fabio Morabito
I sondaggi già avevano detto quanto poco fosse apprezzato dai suoi concittadini Emmanuel Macron, il più giovane presidente francese (è stato eletto a 39 anni di età), ma questo è un destino condiviso dai recenti inquilini dell’Eliseo. La crisi che però in questo autunno Macron si è trovato ad affrontare, e che si è concretizzata in piazza con la montante protesta dei “gilet gialli”, va in segno contrario ai suoi sogni di Grande Francia. Ora Macron deve fare conti con i poveri, quelli vecchi e quelli nuovi, con le classi sociali esasperate, e anche se ha ammesso gli errori fatti e ha ammesso che i contestatori hanno ragione, potrebbe scoprire di essersi fatto sfuggire di mano la situazione. Per provare a capire quanto drammatica è la rivolta dei gilet gialli bastano due numeri a confronto. Nell’attentato dell’11 dicembre scorso in un mercatino di Natale a Strasburgo, non distante dal Parlamento europeo, il killer dell’Isis poi ucciso a sua volta ha fatto cinque vittime. Nella rivolta dei gilet gialli, finora, le vittime sono state otto: per circostanze diverse, anche incidenti nelle strade bloccate, ma tutte connesse a questa protesta che è dilagata in tutto il Paese, in un clima di violenza (cariche della polizia, gas, lanci di pietre) che segna una scollatura profonda con le istituzioni. Se il terrorismo provoca un imparagonabile allarme sociale le manifestazioni violente di piazza, quando Il presidente che sogna da statista non sono dovute a provocazioni come quelle dell’estremismo politico sono il segnale di un malessere diffuso che potrebbe avere ulteriori conseguenze drammatiche.
Il clima dello scontro si è ammorbidito (il 15 dicembre è stato il quinto sabato di cortei) anche perché Macron ha fatto una serie di concessioni, dai salari minimi alle pensioni. Il fronte della protesta si è diviso, in piazza l’ultimo sabato erano la metà dei contestatori di sette giorni prima. Sono scesi in piazza 66mila in tutta la Francia, secondo i dati del ministero dell’Interno. La strage di Strasburgo, appena quattro giorni prima, ha forse convinto molti contestatori a non scendere in piazza: e per quattromila contestatori per le strade, c’erano il doppio dei gendarmi.
All’inizio la protesta, nata per il rincaro del carburante ma ormai dilagata su tutti i temi del costo della vita, ha visto scendere in strada oltre 250mila persone. Macron, pur condannando violenze e eccessi, ha deciso di fare delle concessioni che però andranno a incidere, inevitabilmente, sul bilancio dello Stato. Concessioni valutate in dieci miliardi di euro, cifra in dopo una prima bocciatura da Bruxelles, è ora costretta a modificare la manovra finanziaria. Il fatto è che lo “sforamento” della Francia porterà il rapporto deficit/Pil a oltre il 3%. Mentre all’Italia viene chiesto di rivedere i conti, perché a Bruxelles non basta il 2,04% proposto dal premier Giuseppe Conte in questi giorni.
Un diverso trattamento di Bruxelles verso i due Paesi fondatori, che naturalmente viene visto
con malumore a Roma: anche se è inevitabile che le reazioni dei mercati incidono, e hanno un peso diverso. A Parigi non c’è per ora il ricatto dello spread, che pure è cresciuto negli ultimi giorni, e il debito pubblico è elevato ma non così sproporzionato. Ma il Commissario per gli Affari economici Pierre Moscovici, che ha già più volte dichiarato che Parigi può sforare anche fino al 3,5%, è un francese, e questo lo rende sospettabile di benevolenza patria. Moscovici è stato ministro dell’Economia in Francia dal 2012 al 2014, anni in cui Parigi ha sforato il tetto del 3%, così come ha fatto nove volte negli ultimi dieci anni. Ma il rapporto debito/pil (prodotto interno lordo) in Francia è di un quarto meno pesante che in Italia, e questo dovrebbe bastare a spiegare che la rigidità di Bruxelles nei nostri confronti ha un fondamento.
Macron ha parlato di “stato di emergenza sociale ed economica”. E Moscovici naturalmente ha detto che lo sforamento che sarà concesso a Parigi è temporaneo ed eccezionale, perché è eccezionale la protesta di queste cinque settimane dei gilet gialli. Che però rischia di non durare solo una stagione. Già i sondaggi avvertono che se i gilet gialli si organizzassero in partito potrebbero diventare già alle prossime elezioni europee una forza di peso. Le percentuali dei sondaggi effettuati sono diverse, anche perché legate a come si pone la domanda. Ma c’è una una percentuale convergente del 13-14%. Addirittura, un sondaggio dell’Ifop che risale al 5-6 dicembre, indica in 41% i francesi che potrebbero votare un partito dei gilet gialli (che ora non esiste). Potrebbero.
I “gilet gialli” si chiamano così perché i francesi che bloccano le strade indossano il catarifrangente color canarino che si tiene in macchina, per indossarlo in caso di incidente e scarsa visibilità. Una divisa improvvisata che costa poco, che tutti si possono procurare, che suggerisce un’appartenenza e che ha reso molto comunicativa la protesta. Ma non c’è solo il giallo di questa contestazione a pesare sulle difficoltà che Macron ha in patria. A cominciare proprio dalla protesta: i gilet gialli, come una calamita, hanno richiamato un malcontento diffuso di vari strati sociali, dai lavoratori sottopagati ai pensionati, che si aggregano per una sete di giustizia, o una ribellione all’ingiustizia, che non è esattamente la stessa cosa. Ma protesta c’è anche fuori da questo movimento, come quella degli studenti che hanno occupato nei giorni scorsi una sede distaccata della Sorbona, come lo sciopero degli autotrasportatori. Un malcontento a più voci, ma diffuso in tutti gli strati popolari, post-ideologico, non etichettabile come destra o sinistra. Non c’è un tribuno (come Beppe Grillo con i Cinque Stelle), il movimento è nato spontaneamente, lo stesso Eliseo fatica a trovare degli interlocutori.
Gli osservatori sono per lo più concordi nel parlare di una rivolta al “sovrano”, a Macron, ora sempre più identificato come il presidente della grande finanza, dei banchieri. C’è qualcuno che arriva a parlare di rivoluzione, a scomodare il 1789. Eppure, appena nel settembre scorso il giovane presidente aveva annunciato il “reddito universale di attività”, una declinazione dell’araba fenice italiana, il reddito di cittadinanza, che in Francia c’è già, ma ferma a 550 euro mensili. E, contemporaneamente, un piano per “sradicare la grande povertà” di due miliardi di euro l’anno. Ma Macron è ormai assediato dallo scetticismo, definito da tutti gli oppositori come un arrogante, forse anche percepito come un usurpatore. Il che è la conseguenza di un sistema elettorale quello francese che dovrebbe far riflettere i cultori del presidenzialismo. Macron è stato eletto nel maggio dell’anno scorso dopo essere passato al ballottaggio con il consenso di neanche un francese su quattro. La sua avversaria era Marine Le Pen, la leader della destra estrema, e per bloccare lei due francesi su tre hanno votato al secondo turno per Macron. Un voto contro, anche se poi il nuovo partito fondato dal giovane presidente, En Marche, ha vinto le elezioni immediatamente successive.
Il suo successo elettorale si è sbiadito in fretta. Non sono bastati gli atteggiamenti ipernazionalisti, i tentativi nel cercare un’assoluta leadership europea, la sua caparbietà nello stabilire un rapporto privilegiato con la Germania per dominare la scena del continente. Anche in politica estera sta perdendo colpi, permettendo ad esempio all’Italia di ristabilire un rapporto privilegiato con la Libia. La Francia era stata spregiudicata, e mentre Roma si relazionava con il governo di Tripoli guidato da Fayez al Serraj e riconosciuto dall’Onu, Parigi puntava su Khalifa Haftar, il generale che controlla la Libia orientale. Ora Roma ha recuperato posizioni, e sta soppiantando Parigi nel ruolo di mediatore nella Libia martoriata. Haftar sembra parlare preferibilmente con Conte, e nell’arco di quaranta giorni si è recato tre volte in Italia. Anche gli Stati Uniti sembrano preferire un ruolo privilegiato per Roma nelle questioni libiche. Del resto la guerra a Gheddafi, che poi ha destabilizzato la regione, l’ha voluta il presidente francese di allora, Nicolas Sarkozy. Un altro politico che si è giocato la sua popolarità come inquilino dell’Eliseo. Come anche il suo successore Françoise Hollande. E ora tocca a Macron provare a vincere l’impopolarità.