di Fabio Morabito
Era già successo quasi ottant’anni fa che la Francia richiamasse in patria l’ambasciatore di stanza a Roma. Ma è proprio questo precedente a spiegare la gravità di quanto è successo il 7 febbraio scorso con il presidente francese Emmanuel Macron che ha richiamato a Parigi Christian Masset dalla splendida ambasciata di Palazzo Farnese. Solo la ragione addotta (“consultazioni”) vuole ammorbidire la “situazione senza precedenti”, così definita dall’Eliseo. Perché il precedente – che invece c’è – è una pagina tragica. Il 10 giugno 1940, appunto quasi ottant’anni fa, André Francois-Poncet, ambasciatore francese a Roma, fu richiamato a Parigi dopo il breve colloquio con il Ministro degli Esteri italiano Galeazzo Ciano che consegnò al diplomatico la dichiarazione di guerra. “È un colpo di pugnale ad un uomo in terra. Vi ringrazio comunque di usare un guanto di velluto” disse Francois-Poncet a Ciano, secondo quanto riportato dai diari di quest’ultimo. La versione poi ricordata dal diplomatico francese è più dura: “E così avete aspettato di vederci in ginocchio per accoltellarci alle spalle” e sarebbe riferita alla quasi disfatta francese, di quei tempi, rispetto ai nazisti.
Ma i rapporti con quella che allora veniva chiamata “sorella latina”, la Francia, si erano già sciupati sugli interessi africani, con le sanzioni all’Italia coloniale, e gli umori di Mussolini erano di chi si sentiva tradito. E andando a ritroso nel tempo si trovano rivendicazioni (Corsica e Nizza) e asprezze da scriverci un libro. Tuttora ci dividono anche argomenti leggeri come vini e formaggi, champagne e prosecco, la lite tra Zidane e Materazzi alla finale mondiale di calcio del 2006. E con qualche ragione ci sentiamo invidiati. Eppure la metafora della parentela (ieri sorelle, da qualche decennio “cugini”) è efficace per descrivere un legame così particolare, dove le rivalità non hanno il sopravvento. E’ generosa la definizione del poeta, scrittore e poi regista Jean Cocteau: “I francesi sono degli italiani di cattivo umore, e gli italiani sono dei francesi di buon umore”.
Fatto è che con Macron all’Eliseo il nuovo governo italiano ha trovato il nemico perfetto. Soprattutto in vista delle elezioni europee del maggio prossimo, dove lo scenario della campagna elettorale diventa continentale e polemizzare con Matteo Renzi non basta più.
La crisi dei rapporti tra i “cugini” è cominciata con la vicenda dell’Aquarius, i porti chiusi perché si trattava di una Ong, le accuse di Parigi al governo italiano di mancanza di umanità. Allora fu il mite ministro degli Esteri, al governo su suggerimento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Enzo Moavero Milanesi, a doversi far carico di un atto ufficiale come la convocazione dell’ambasciatore Masset alla Farnesina. Convocazione, non richiamo: siamo al primo gradino dell’ostilità diplomatica. Giusto per non perdere l’occasione di uno sgarbo, con la scusa che Masset era altrove, la Francia mandò a parlare con Moavero l’incaricata d’affari.
Ma poi qualcosa si ricuce lo stesso, a fatica, senza che Macron debba scusarsi. Conte confermerà una visita all’Eliseo solo dopo una telefonata notturna del presidente francese. Il nostro primo ministro, che ha una prosa più convenzionale e accorta dei suoi soci di governo, riesce ad accreditarsi come interlocutore ragionevole. Con qualche attenzione da buon amico, come quando prenota un buon ristorante di pesce a Macron e a sua moglie Brigitte, di passaggio a Roma per una visita dal Papa. Matteo Salvini invece continua a martellare sul “nemico” francese. E nelle ultime settimane la situazione precipita. C’è la polemica sul franco coloniale, moneta corrente di 14 Paesi africani, lanciata da Alessandro Di Battista, uno dei capi riconosciuti dei Cinque Stelle.
Gli attacchi a Macron sono ormai all’ordine del giorno da entrambe le forze di governo. Il presidente francese risponde al veleno mantenendo però i nervi saldi: “Il popolo italiano merita governanti all’altezza della sua storia” replica, per far capire che gli attuali non lo sono. Ci sono tentativi da entrambi i Paesi per sciogliere la tensione. Ma non da parte di Luigi Di Maio che va in Francia per incontrare i capi dei “gilet gialli”, che guidano la protesta che sta infiammando le strade da alcune settimane. Ed è questo l’episodio che provoca lo strappo perché vissuto come “inaccettabile ingerenza” nella politica interna di Parigi.
In fondo, anche Macron sembra aver colto un pretesto. Vero che Di Maio è vice-premier, ma è anche capo politico dei Cinque Stelle. E sapendo della volontà dei “gilet gialli” di aggregarsi in un partito per le Europee, voleva porre le basi per un’alleanza futura a Bruxelles. La Lega sa bene con chi apparentarsi, e cioè con i sovranisti di tutta Europa e l’ultradestra francese di Marine Le Pen. I Cinque Stelle, invece, sono orfani di alleati e temono di restare spiazzati. Ma tutto questo non giustifica l’imprudenza e l’approssimazione con cui Di Maio ha provocato finora i “cugini”. E non basta avere delle buone ragioni nelle critiche alla Francia “coloniale”. Che mentre litiga con Roma, bombarda la Libia in Cirenaica, d’intesa con il generale Haftar, capo militare non allineato al governo riconosciuto dalle Nazioni Unite.
I Cinque Stelle, proiettati in campagna elettorale e in competizione con la (per ora) travolgente comunicazione di Salvini, di fatto disfano il lavoro paziente di Palazzo Chigi e della Farnesina per mantenere rapporti distesi con l’Eliseo. Eppure Macron, che parla di “lebbra populista”, non è stato da subito un nemico. Anzi: fu il primo capo di Stato a chiamare Conte, addirittura dopo il pre-incarico ricevuto da Mattarella, quando temporaneamente fallì per l’opposizione del Quirinale alla scelta di Paolo Savona ministro dell’Economia.
Ora la situazione è compromessa. Il richiamo dell’ambasciatore è un gesto forte, seppure sembri strumentale. Anche Macron, non solo i partiti italiani, è in campagna elettorale. La debolezza interna viene mascherata dal mostrare i muscoli in Europa, e Palazzo Chigi sembra l’avversario più comodo, anche perché l’opposizione politica in Italia non fa quadrato con il governo neanche sull’amor patrio, e fa un tifo imbarazzante per Macron. Addirittura sui profili social di alcuni esponenti del Partito democratico vengono esibite le bandiere francesi, come ai tempi dell’attentato dei terroristi islamici al giornale Charlie Hebdo.
Contestato in Patria, Macron si muove da decisionista nella politica estera. Il Trattato di Aquisgrana con la Germania di Angela Merkel, l’unica statista europea anche se in calo di consensi, va nel senso di rafforzare la posizione di Parigi e quella di Berlino, non quella di Bruxelles. La dichiarazione comune con l’ultimatum a Nicolas Maduro, il presidente venezuelano che sembra un dittatore ma che è stato eletto democraticamente, ha allargato l’alleanza a tre, con la Spagna di Pedro Sanchez. Ma anche il primo ministro spagnolo è un tassello debole, che ha appena visto bocciata la manovra di bilancio nonostante l’aumento previsto dei salari minimi e delle pensioni. Forse l’alleato più naturale per il presidente francese sarebbe stato proprio l’Italia, ma in queste condizioni non era possibile: i ruoli che i protagonisti giocano sono troppo conflittuali, Macron quello del campione dell’europeismo (anche se non è così), Salvini il mattatore del sovranismo, i Cinque Stelle l’antisistema.
Sembra uno scontro sulle macerie dell’Europa, dove si cercano avversari e nemici in quelli che sarebbe più comodo per tutti se fossero alleati. Una situazione che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si incarica di recuperare. Con una telefonata all’Eliseo del 12 febbraio. Si ribadisce lo scenario di alleanza in cui muoversi, di quanto sia indispensabile anche per l’Europa l’amicizia tra i due Paesi.
Ci sono stati tanti passaggi di crisi anche nel dopoguerra tra i “cugini” che sembrano divisi solo dalle Alpi. Visioni diverse: l’Europa degli Stati per Charles De Gaulle, l’Europa federale per Alcide De Gasperi e Amintore Fanfani. Contrasti improvvisi, come il voto contrario dell’Italia alle Nazioni Unite sui test nucleare francesi voluti da Jacques Chirac. Oscar Luigi Scalfaro, allora Presidente della Repubblica, definì i test nucleari francesi “in odio a un concetto di pace”. E i terroristi rossi che trovarono rifugio nella Francia di Francois Mitterrand, come se l’Italia fosse una dittatura da cui scappare, aprirono una ferita che non si è chiusa. Cesare Battisti riuscì a lasciare la Francia, e quella fuga fu facilitata da Parigi verso il Brasile. C’era allora in gioco un’importante commessa militare con il Paese sudamericano, e Roma e Parigi erano concorrenti. Un capolavoro di cinismo diplomatico.
L’ultima tragedia, gestita con disinvoltura da Parigi, quando inquilino dell’Eliseo era Nicolas Sarkozy, è stata l’aggressione in Libia per spodestare il dittatore Gheddafi. Silvio Berlusconi, allora primo ministro in Italia, era recalcitrante ma si fece convincere a combattere il dittatore che era riuscito a farsi amico.
Ma l’appoggio reciproco tra i due Paesi negli ultimi dieci anni ha prodotto anche buone scelte, come la nomina di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea. Nella bilancia commerciale, poi, Roma ha un vantaggio di quasi sette miliardi l’anno rispetto a Parigi, che pure ha aumentato le importazioni verso di noi. Da Fincantieri a Tim ad Alitalia, sono diverse le partite aperte: potrebbero essere queste le chiavi non per cedere sovranità ma per ritrovare un percorso comune. Che la colpa sia dell’arroganza di Macron o dalle provocazioni dei leader italiani poco importa se non si è capaci di capire che i due Paesi potrebbero essere alleati ideali. Invece di essere inutili nemici.