Theresa May sconfitta la seconda volta alla Camera dei Comuni
Conservatori e laburisti allo sbando: inutile anticipare le elezioni
Di Fabio Morabito
C’è ancora la fila, nonostante i tanti ingressi degli ultimi anni, per entrare nell’Unione europea. Eppure uno dei “soci di riferimento”, la Gran Bretagna, potenza dentro un progetto che era un sogno e che ora si può definire ragionevolmente una necessità, ha deciso di andarsene. Con un primo ministro europeista, David Cameron, che si è inventato un referendum per sedurre l’elettorato più estremo che dall’Europa voleva uscire. A sorpresa l’esito si è votato nel giugno di tre anni fa è stata un’uscita sbattendo la porta. “Fuori dall’Europa” ha chiesto il voto.
Un suggerimento, perché non si è trattato di un referendum vincolante. Ma da allora, con Cameron che ha lasciato il campo dopo il fallimento del suo azzardo (trattare con Bruxelles condizioni e privilegi per poi confermarsi eurofedele), Londra sembra muoversi spalle al muro ini un vicolo cieco.
Ed è entrato nel linguaggio comune un neologismo, “Brexit”. Che è il segnale di una cattiva memoria. Quando la Gran Bretagna entrò nel Mercato comune, era il 1973, i “soci anziani” più importanti, e cioè Germania (allora Occidentale), Francia e Italia, avevano marciato nei quindici anni precedenti con un aumento del Pil quasi doppio rispetto al Regno Unito.
Era il Mercato comune, con le sue regole e le sue sfide, a spingere l’economia. E Londra lo dimostrò negli anni successivi, una volta entrata nella famiglia europea, allungando il passo. Con tanti vantaggi che si è saputa ritagliare. E quando vent’anni fa esordì l’euro come moneta comune, la Gran Bretagna scelse con lungimiranza di restare fedele alla sua sterlina. Il che voleva dire meno vincoli, e sovranità monetaria: quello che l’Italia (ma in parte anche la Francia) ora ha motivo di rimpiangere.
Ma mai è sembrato che la Gran Bretagna avesse un serio motivo di “restaurare” il suo isolazionismo di Impero al tramonto. E, soprattutto, ora prova la sofferenza di una scelta che è un’uscita che sembra senza vie d’uscita. Naturalmente, e lo dicono anche i giuristi, può ancora ripensarci, e forse lo farà. In tanti insistono per un secondo referendum. E’ diffusa la sensazione che l’esito sarebbe diverso. Ma l’orgoglio nazionale, per quanto poco possa contare in tempi di materialismo, ne reste-
rebbe ferito.
Theresa May, la premier dei conservatori a capo del governo britannico, ha condotto con dedizione la trattativa per un addio concordato con Bruxelles. L’intesa, imperfetta (ma non potrebbe essere altrimenti, troppo complicato è il tutto), prevede l’uscita dalla Ue il 29 marzo. Adesso. Al Parlamento europeo si vota a fine maggio hanno già calcolato come verranno ripartiti i seggi lasciati liberi dalla Gran Bretagna. All’Italia ne spetteranno tre in più.
Ma il 12 marzo l’accordo con Bruxelles è stato sottoposto al voto della Camera dei Comuni. E’ la seconda volta: il testo ha qualche concessione in più ottenuta da Bruxelles sulla questione più difficile da gestire, l’Irlanda del Nord, questione più pesante del conto che Londra ha accettato di pagare per la Brexit: 45 miliardi di euro. Si tratta del “backstop”, una sorta di garanzia imposta dall’Unione europea per evitare il ritorno delle frontiere tra Irlanda e Irlanda del Nord, che contrasterebbe con l’accordo di pace di ventun anni fa. Theresa May ha ottenuto, nonostante Bruxelles si dichiarasse irremovibile, l’impegno a trovare una soluzione diversa entro il dicembre dell’anno prossimo. Ma non si sa quale, e ancora una volta, l’accordo è stato respinto. Centoquarantanove voti di differenza. Una disfatta.
A votare contro, oltre all’opposizione, anche quei conservatori che pensano che quest’accordo non sia abbastanza. E gli euroscettici ad oltranza. Un esito ampiamente previsto, che salda il voto contrario di chi vuole provare a disinnescare l’uscita con chi la vuole più dura possibile. E cioè il “mancato accordo”, che apre scenari preoccupanti anche perché ingestibili. Il giorno dopo questa prevedibile sconfitta della May, c’è stato un nuovo voto, questo sul “no deal”, e cioè sulla prospettiva del mancato accordo. Anche questo si preannunciava di esito scontato: la convinzione diffusa, infatti, è che l’ipotesi del mancato accordo venisse respinta. E così è stato, ma con un margine che ha il L’emendamento approvato esclude che la Gran Bretagna possa uscire dall’Unione europea “senza un accordo di recesso e una cornice sulle relazioni future” con Bruxelles. Il che significa restare ancora in Europa chiedendo di fatto un rinvio (o un blocco, come si voglia chiamarlo) delle procedure, lasciandosi aperta la strada di un ripensamento. Ma Michel Barnier, il politico francese al quale il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha affidato il ruolo di caponegoziatore della Brexit, non sembra disposto a fare nuove concessioni. E la decisione della Camera dei Comuni, che chiede che l’uscita sia condizionata a un’intesa, ha un punto debole non trascurabile: gli accordi si fanno in due.
Se diversi osservatori nei loro commenti indulgono alla parola “caos”, definizione semplicistica ma corretta, le possibilità per la Gran Bretagna restano diverse, ma in un contesto oggettivamente complicato.
Un nuovo referendum?Lo reclama, ed è stato tra i primi ad averlo fatto, l’ex premier ed ex leader dei laburisti Tony Blair. E con quali domande? Con una domanda semplice come quello del 2016, un “abbiamo scherzato”, oppure un quesito che tenga conto dell’accordo raggiunto dalla May con Bruxelles? E poi per indire un referendum ci vuole del tempo, forse sei mesi. Si parla a Londra anche di elezioni anticipate. Le vorrebbe il leader dei laburisti James Corbyn, ma è probabile che alla fine dovranno ancora governare i conservatori, con Theresa May disarcionata dalle due sconfitte alla Camera dei Comuni. Peraltro Corbyn guida un partito che non la pensa come lui. Infatti la maggioranza dei laburisti è per un nuovo referendum che annulli la decisione del precedente. Corbyn invece ragiona su una Brexit molto morbida, dove Londra uscirebbe dall’Unione pur mantenendo un posto nell’unione doganale (e questo risolverebbe il problema delle frontiere irlandesi).
La strada più percorribile è quella di una proroga, o rinvio, che dia più tempo a Londra per gestire una matassa ben più complicata di quella che era stata rappresentata agli elettori quasi tre anni fa (il voto del referendum è del 23 giugno 2016: il 52% ha votato per la Brexit, il 48% per restare). Naturalmente, anche su questo Londra non ha più l’esclusiva della decisione. Deve sempre scendere a patti con l’Unione europea. E ci vuole il via libera di tutti i 27 Paesi che ne fanno parte.
Una situazione a cui la Gran Bretagna non è abituata. Un rinvio che può essere breve, e che quindi preveda di perfezionare gli accordi per l’uscita prima del voto europeo. Tempi stretti. Oppure più lungo, come vorrebbe Londra. Scavalcando maggio e con la Gran Bretagna al voto per Bruxelles. Un periodo più lungo quanto? Magari un anno. Per permettere all’ex impero di riprendersi dalle conseguenze dell’azzardo di Cameron. Che voleva restare in Europa e ha portato la Gran Bretagna fuori dall’Europa.