di Fabio Morabito
I cinesi l’hanno chiamata “la Nuova via della seta”, con immagine suggestiva, che richiama il Milione di Marco Polo. Anche se poi l’espressione “via della seta” è successiva di qualche secolo al viaggio del grande veneziano. Si indicava così il complesso delle rotte commerciali millenarie che già univano la Cina al cuore dell’Europa.
Oggi la percezione è di una “via dell’acrilico” perché sulle merci cinesi pesa il pregiudizio (in parte fondato) che siano di bassa qualità. L’economicità, prima di tutto. Ma ora la Cina esporta anche tecnologie avanzatissime, grazie anche al quasi monopolio su indispensabili minerali rari, e riesce ad essere competitiva sui prodotti di qualità. E Pechino guarda agli Stati Uniti, prima potenza mondiale, come a un leader in decadenza, e prepara il sorpasso. Ovvio che faccia paura, ovvio che si temi una colonizzazione commerciale. Ma da questo a dire che gli accordi firmati con l’Italia (29, ma pochi di questi significativi) durante la visita di Stato del presidente Xi Jinping e della sua corte siano il cavallo di Troia per conquistare l’Europa, ce ne corre.
Prima di tutto perché la Cina in Europa, e in Italia, c’è già. Ci sono rappresentanti di Pechino nei Consigli d’amministrazione delle nostre società più strategiche (dall’energia elettrica all’alta tecnologia) anche se magari ce ne accorgiamo solo quando i cinesi comprano le squadre di calcio. Hanno acquistato industrie di gloria attuale, come la Pirelli, o sbiadita, come la Candy. Sono entrati nella società Reti della Cassa depositi e prestiti con il benestare del governo guidato dall’allora segretario del Pd Matteo Renzi.
La nostra bilancia commerciale, che nonostante la crisi è in attivo rispetto a mercati competitivi come la Francia, soffre con la Cina. Un’intesa economica su più fronti, con i 29 accordi firmati a Roma il 23 marzo scorso, probabilmente sarà più un beneficio che una disfatta per noi. In un quadro generale dove non è indifferente che la comunità cinese in Italia sia la prima d’Europa. Sarà il tempo a dirlo: ma la contrarietà degli Stati Uniti e quella degli altri grandi attori d’Europa agli accordi di Roma non è disinteressata. La retorica dell’Italia indicata dalla stampa estera come “primo paese del G7 a firmare un memorandum d’intesa con la Cina” (quando in Europa ne hanno già firmato uno Portogallo, Grecia e Ungheria) è solo una curiosità statistica, considerando che il G7 è poco più di un club di Paesi che erano tutte potenze economiche nel secolo scorso. L’irritazione del presidente francese Emmanuel Macron certo non sorprende. Ha mostrato buon senso Angela Merkel: la cancelliera tedesca, che pure non ha gradito l’iniziativa italiana, l’ha ritenuta lecita e coerente agli impegni europei.
In Italia ha ricevuto molti apprezzamenti Sergio Mattarella. Il Presidente della Repubblica ha ricevuto venerdì 22 marzo Xi Jinping al Quirinale, con stretta di mano davanti alla statua di Augusto e un cerimoniale nel massimo splendore (con il nostro cantante più internazionale, Andrea Bocelli, che si è esibito per l’illustre ospite intonando “Nessun dorma”). “Accoglienza da imperatore” titola Repubblica. Ma il Quirinale avverte che Mattarella ha sottolineato all’ospite come la nuova via della seta dovrà essere una strada a doppio senso, transito non solo di commerci ma di talenti e conoscenze, e che ci dovrà essere una reciproca riflessione sui diritti umani, raccomandazione storicamente indigesta per Pechino. Ma Xi Jinping è stato conciliante, e ha mandato il suo messaggio di pace all’Europa, che dichiara di volere unita (al contrario del presidente statunitense Donald Trump).
Accordi modesti, quelli di Roma con la Cina, valutati 7 miliardi (tre giorni dopo Xi Jinping comprerà dalla Francia aerei per trenta miliardi). E la decantata esportazione delle arance italiane in Cina avrà sul nostro debito pubblico l’effetto di una spremuta. Nulla di fatto sulle telecomunicazioni, che sono un settore effettivamente strategico. Ma si stabilisce la comune volontà di cooperare per i collegamenti verso l’Europa, realizzando una testa di ponte nei porti di Trieste e Genova con l’ampliamento dei moli affidati a una società cinese di costruzioni. Tutto questo meritava tanto chiasso? A Pechino fa gioco, e l’idillio con Roma è stato decantato dai media locali. E anche dallo stesso XI Jinping che ha mandato un intervento per il Corriere della Sera, pubblicato alla vigilia del suo viaggio, il 20 marzo: “Lo stile di vita e il modello industriale italiano che integra antico e moderno, classicità e innovazione, mi ha profondamente colpito” chiosa. Non risparmiandosi quella definizione che da noi è diventata stucchevole: “Il Bel Paese”.
Se Pechino ha le sue ragioni, Palazzo Chigi forse è stato ingenuo a provocare intorno a così poco tanto allarme. A meno che non sappia gestire con
profitto l’attenzione internazionale che questo decantato “memorandum” ha attratto su di sè. Ma è un fatto che la geografia economica si sta spostando verso il blocco euroasiatico, e che per l’Italia essere la giuntura di questa “via della seta” è un’occasione da
non perdere.
Pechino guarda all’Europa per cambiare passo e qualità alla sua crescita, che sta decelerando. L’Italia esporta ogni anno verso la Cina merci per 14 miliardi, meno di un sesto di quello che muove sulla stessa rotta la Germania. Che la sua via della seta ce l’ha nelle ferrovie, a Duisburg, stazione d’arrivo di treni-merci che passano dalla Russia. Mentre via mare Pechino ha già provveduto due anni fa ad impadronirsi di Zeebrugge, il secondo porto del Belgio. Senza bisogno di un memorandum.
L’Italia ha dalla sua parte una ricchezza formidabile, che in questo caso si chiama geografia. E’ solo buon senso che cerchi di trarne profitto. I malumori americani, blanditi all’apparenza da Matteo Salvini, vicepremier e leader della Lega, molto attento a non perdere l’appoggio di Washington, potrebbero non avere conseguenze se la nostra diplomazia sarà abile a far credere allo storico alleato di poter controllare fino a che punto si apriranno i nostri porti.
Anche gli Stati Uniti hanno interesse di questi tempi, e con il populista Donald Trump alla Casa Bianca a un buon rapporto con Roma. E le frizioni tra i due alleati di governo, i Cinque Stelle considerati più propensi all’intesa con Pechino rispetto alla Lega, sono probabilmente più blande di quanto appare. Il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci, a cui viene riconosciuto un ruolo importante in quest’intesa (conosce il cinese e ha lavorato dieci anni a Pechino) non è “grillino” ma leghista.
Il passaggio dall’Italia del flusso delle merci cinesi verso l’Europa (che è già aumentato di un terzo in appena un anno) sarà un vantaggio per noi. Se Roma imporrà dei limiti che compiaceranno Washington, potrà far valere questo come un rapporto preferenziale da trattare con gli Stati Uniti. E altrettanto può fare con Bruxelles. In una chiave geopolitica l’Italia potrà essere se lo vorrà meno atlantica e più aperta all’Asia, e questo darà importanza al suo ruolo anche nella Nato ora che l’alleato turco preoccupa Trump anziché indebolirlo.
In questo quadro che rapidamente cambia, dove la Casa Bianca si è preoccupata in ritardo della vocazione cinese a diventare la prima potenza mondiale, Pechino sta allineandosi agli standard europei anche nell’economia interna. In queste settimane nella poca attenzione dei nostri media è stata approvata una legge che faciliterà gli investimenti stranieri in Cina. Prima una nuova società con capitale estero avrebbe dovuto per forza essere controllata da soci cinesi in maggioranza.
Ora non sarà più così. E Pechino sembra disposta a trattare alla pari con l’Europa, su quello che viene invocato da più parti: reciprocità. “Esiste uno squilibrio commerciale” avverte Jean Claude Juncker, presidente della Commissione europea. Ed è a netto vantaggio della Cina. Ma Roma può avere l’occasione di raddrizzarlo, se avrà l’abilità di farlo. Smentendo chi la identifica come “il ventre molle” dell’Unione, che Pechino avrebbe individuato per conquistare i mercati del Vecchio continente.
In realtà l’Italia è alleato appetibile per tutti e due i grandi protagonisti dell’economia mondiale, la Cina e Stati Uniti per la sua geografia unica, aggrappata all’Europa e per il resto circondata dal Mediterraneo. I suoi porti sono in concorrenza con gli altri porti europei. Ma è evidente che ogni intesa con Pechino può essere un’opportunità per smuoversi dalla recessione e recuperare nella bilancia commerciale (il colosso Cina è solo il nostro ottavo mercato nell’export) ma anche un rischio, perché la nostra economia è davvero debole e non sarà salvata dalle arance. Una partita da giocare, ma che è giusto aver scelto di giocare.