di Antonella Blanc
Lo ha invocato più volte Tony Blair: il referendum, anzi un altro referendum sulla Brexit, con l’obbiettivo di cambiarne l’esito, dopo che quello del 2016 ha infilato Londra in un vicolo cieco ingestibile, con un’uscita dall’Unione che sta dividendo il Paese e che, solo come prospettiva, ha già ammalato l’economica britannica. Tony Blair è lo storico leader dei laburisti, per dieci anni primo ministro in Gran Bretagna, anche se da tempo con l’immagine compromessa per la sciagurata guerra in Iraq, e la grande bugia per giustificarla (le arme di distruzione di massa che si diceva fossero in possesso del dittatore Saddam Hussein). Ma una patina di carisma l’ha conservata, e sulla Brexit fa pressione ovunque, in casa come a Bruxelles: “L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione è il pensiero di Blair fa male alla Gran Bretagna ma fa male anche all’Europa, perché la indebolisce in un momento in cui invece deve essere forte”.
Un argomento, quello del referendum, che è terreno di scontro con Theresa May, l’attuale primo ministro, che respinge quest’ipotesi e non riesce neanche a gestire il suo partito dei Conservatori, divisi in due o più fazioni sul tema della Brexit.
Ma su un secondo referendum appare complicato anche sulle domande da porre agli elettori: sì o no come quello precedente oppure sì all’uscita con accordo con Bruxelles, sì all’uscita senza accordo, e no all’una e all’altra? L’accordo con Bruxelles Theresa May l’ha trovato, ma è il Parlamento che lo respinge (lo ha fatto già tre volte). E restano irrisolti i nodi più vistosi, a cominciare dall’Irlanda del Nord, con lo spauracchio che tornino i tempi del sangue e del terrore.
Un referendum come questo, con una domanda complessa e non semplificata, in qualche modo ci sarà per forza. E sono le elezioni europee. Perché di rinvio in rinvio (ora la data entro la quale accordarsi è stata spostata al 31 ottobre), Londra non può più tirarsi indietro ed è costretta a partecipare al voto di fine maggio, mantenendo i suoi seggi nel Parlamento dal quale sarebbe dovuta andarsene, come prima ovvia conseguenza della “Brexit”. Se non partecipa al voto, è fuori dal primo giugno (il famoso “no deal”, mancato accordo). Con Theresa May che tenta ancora una volta, in extremis, un voto al Parlamento.
Nigel Farage, il leader dei nazionalisti che chiedevano l’uscita dall’Unione, e dal quale è nato tutto perché per neutralizzarlo e prenderne i voti nelle elezioni britanniche David Cameron, il conservatore allora primo ministro, promise il referendum che ora ha cacciato Londra nei guai. Farage, eurodeputato uscente, qualche giorno fa al parlamento europeo ha detto la sua fatidica battuta: “Davvero mi volete ancora qui?”. Al primo sondaggio (di YouGov), appena è stato ufficializzato che la Gran Bretagna dovrà partecipare all’eurovoto, il declinante Farage, che si presenterà con un partito nuovo di zecca chiamato il Brexit Party, tanto per essere espliciti -, risulta nettamente primo nelle intenzioni di voto, a quota 27% (i conservatori, alla guida del governo, sprofonderebbero al 15, i laburisti sarebbero seconda forza al 22%).
Detto così sembrerebbe che la volontà di uscire sia la volontà dei britannici, ma così non è. C’è una galassia di piccoli partiti regionali o addirittura nati per invocare un secondo referendum, come il Change Uk che vuole restare in Europa, e insieme con Liberademocratici e Verdi, schierati compatti contro la Brexit superano il 30%. La confusione più totale, anche considerando che il sistema elettorale per l’Europa (proporzionale puro con lo sbarramento al 4%) è quanto più lontano ci sia al sistema elettorale britannico. Change Uk è nato ispirato da deputati conservatori e laburisti, uniti non dal colore politico ma dalla volontà di scongiurare la Brexit, e già da solo prenderebbe sempre secondo i primi sondaggi il sei per cento.
In questo quadro di confusione e divisione, la Gran Bretagna partecipando al voto avrà diritto ai suoi 73 deputati. Se ci sarà la Brexit dopo le elezioni, gli eletti non resteranno fino a fine legislatura, ma saranno sostituiti pro-quota dai primi non eletti degli altri Paesi (tre per l’Italia), però non tutti e 73 (infatti la Brexit comportava anche una riduzione del numero complessivo dei parlamentari da 751 a 705). A Londra, Theresa May tenta un accordo con i laburisti, o almeno con la parte dei laburisti favorevoli alla Brexit. Pagando lo scotto di non averci provato prima: le divisioni sono trasversali, non ci sono equilibri e tutto appare compromesso, e da questa situazione un vantaggio i laburisti lo potrebbero avere in chiave di politica interna. Intanto, quel 22% accreditato dai sondaggi sarebbe sufficiente a far diventare il gruppo socialista (che comprende il Labour Party) il primo in Europa.