di Andrea Garibaldi
È nato un nuovo campo di studi, la Schermologia.
L’ha inventata, qualche anno fa, Derrick de Kerckhove, sociologo, docente universitario a Toronto e a Napoli, considerato l’erede di Marshall McLuhan, inventore a sua volta della Massmediologia, negli anni ’60. Dice il professor de Kerckhove: “L’impatto comportamentale degli schermi sul cervello è evidente”.
Ora siamo al passo successivo: social media e schermi cambiano il cervello? Nel senso: lo modificano strutturalmente?
Per rispondere a questa domanda (sotto l’egida della Direzione generale delle Reti di comunicazione, dei contenuti e delle tecnologie della Commissione europea, guidata da Roberto Viola) è al lavoro da alcuni mesi un gruppo internazionale formato da neuroscienziati, data analyists, fisici, teorici dei media, sociologi, psicologi, teologi, informatici. Umanisti e scienziati, 28 persone. Si definiscono “pionieri” e hanno tenuto l’ultima riunione a Roma, nelle sedi della Fieg e della Fnsi, nella prima settimana di ottobre. Una ricerca che rientra nel quadro di Horizon Europe, programma quadro europeo per la ricerca e l’innovazione 20212027.
Cosa c’entra l’informazione? C’entra, se consideriamo che i social sono una fonte d’informazione, che rilanciano i media tradizionali e che i principali fruitori dei social i giovani sono i più a rischio per eventuali modifiche del loro cervello.
Il gruppo di lavoro, diretto da de Kerckhove e da Maria Pia Rossignaud, direttrice della rivista Media Duemila, ha riassunto nella carta introduttiva della sessione romana le ricerche finora effettuate sulla materia. I neuroscienziati hanno notato come chi stia davanti a uno schermo (grande o piccolo) fra le 5 e le 7 ore al giorno subisca una riduzione dello spessore della corteccia cerebrale. I ragazzini in età di scuola elementare che guardano la tv o usano un computer per più di due ore al giorno sono più soggetti ad avere problemi emozionali, sociali e di attenzione. Sono irritabili e hanno lacune nella capacità di giudizio, dovute all’esposizione continua al flusso di informazioni dei social media. Negli ultimi venti anni secondo la Società americana di psichiatria per ragazzi e adolescenti è stato osservato che l’esposizione a show tv, film, musica e videogame violenti ha fatto diventare i ragazzi insensibili alla violenza stessa: di conseguenza possono usare la violenza per risolvere i problemi e possono imitare ciò che vedono in tv. I social media riescono a convogliare e rafforzare movimenti nascenti, come quelli per il climate change e tuttavia stimolano e provocano anche movimenti collettivi negativi, come quelli legati all’hate speech o al bullismo.
Marina Geymonat, che si occupa di intelligenza artificiale nello staff di Tim, ha spiegato durante gli incontri romani come “il meccanismo degli algoritmi genera un effetto distorto che rischia di creare fissazione su una tematica e di indurre nicchie di persone alla convinzione sempre maggiore della sua importanza”. Avviene lo stesso per le opinioni: “Col passare del tempo l’opinione si trasforma in una teoria, con tanto di prove potenzialmente mai verificate, fino a diventare una convinzione”. Non solo. Più un argomento tocca la sensibilità personale e scatena rabbia (o entusiasmo), più ci saranno reazioni (quindi più utenti coinvolti), più l’algoritmo per come è impostato avrà raccolto il successo sperato. Insomma, se si parla del tempo mentre se si toccano punti chiave sui quali gli individui sono sensibili (razzismo, sessismo, omofobia) si ottiene molta attenzione. Dice Geymonat: se la “success function” degli algoritmi anziché raccogliere utenti “fosse per esempio diversificare le mie fonti di informazione, forse tutto andrebbe in modo diverso e potrei avere una serie di punti di vista differenti, su campi diversi, provenienti da fonti disparate, con il possibile effetto finale di aumentare la mia propensione al dialogo e all’approfondimento piuttosto che di alimentare i miei interessi personali”. Ecco, un algoritmo che portasse a diversificare le fonti di informazione sarebbe proprio in linea con le regole del migliore giornalismo. Ma ciò non è naturalmente nell’interesse di chi gestisce i principali social media, che tendono a produrre traffico, numeri, profilazioni di utenti.
L’immersione negli schermi ha spiegato Roberto Saracco dello Ieee, Institute of Electrical and Electronic Engineers, associazione internazionale di scienziati professionisti con l’obiettivo della promozione delle scienze tecnologiche provoca “una perdita di percezione di confine tra ciò che è reale e ciò che è virtuale, tra lo spazio fisico e quello artificiale. L’arte cinema, teatro, letteratura spesso è riuscita, riesce a farci perdere il confine tra il reale e l’immaginazione, trasportandoci nell’opera”. Ma si tratta di un’esperienza limitata nel tempo. La previsione di Saracco è che invece le esperienze ripetute e prolungate nella realtà virtuale porteranno a una “evoluzione/adattamento del nostro cervello, che inizierà a diventare simbiotico con una parte dell’ambiente artificiale. Le esperienze nella realtà virtuale avranno un effetto nella realtà reale”. Tutta questa materia ha aspetti sociali e comportamentali e aspetti fisici e morfologici. Da una parte, grazie ai social media, accade che argomenti di scarso rilievo diventino centrali nel dibattito pubblico, che si moltiplichino in rete i pregiudizi, che si sviluppino sempre di più le “camere dell’eco”, vale a dire quei luoghi dove si ripete e rimbalza un assunto fino a farlo diventare vero, indiscutibile. Dall’altra, i “pionieri” di Roma sono al lavoro per comprendere meglio quali mutamenti del cervello sono causati dall’uso costante di social network. Come affrontare questi enormi problemi, che assumono continuamente forme diverse sotto i nostri occhi? Un ruolo fondamentale spetta all’educazione. E un altro ruolo fondamentale proprio l’informazione, pubblica e privata. Sia le scuole che i media tradizionali devono però trovare il sistema per conquistare spazio nelle menti e nei cuori dei giovani conquistati dagli schermi. Francesco Gallucci, direttore scientifico dell’Associazione italiana di Neuromarketing, afferma che ci sarebbe bisogno di un cambiamento sociale: “Il messaggio deve essere veicolato attraverso la didattica e dovrebbe essere incentrato principalmente sull’onestà, sull’integrità, sulla responsabilità e sulla fiducia. L’esatto opposto della propaganda, della manipolazione, del consumismo irresponsabile e dell’accettazione passiva e acritica di qualunque cambiamento, di idee e tecnologico. Ma per cambiare la cornice bisogna avere una grande consapevolezza dei meccanismi di funzionamento del cervello”.