di Michele Concina
Se un giornalista si fa licenziare al primo impiego per aver inventato notizie e dichiarazioni, poi sbaglia tutte le previsioni, si trova implicato in un’indagine criminale, e viene pubblicamente svergognato per una serie interminabile di balle, che cosa deve fare? Risposta ovvia, cambiare mestiere. Infatti Alexander Boris de Pfeffel Johnson in redazione non c’è più. Sta al numero 10 di Downing Street, occupato a festeggiare una Brexit di cui i suoi articoli hanno gettato le basi nella mentalità degli inglesi.
Non fece troppa fatica per approdare al mestiere, e neppure un giorno di gavetta. Nel 1987, a 23 anni, appena laureato a Oxford, grazie alle amicizie di famiglia fu assunto direttamente al leggendario Times . Meno di sei mesi dopo, per rendere più succoso un servizio su una scoperta archeologica, attribuì una dichiarazione smaccatamente falsa a Colin Lucas, docente di storia a Oxford e suo padrino. Telefonata furente al direttore del quotidiano, e il figlioccio si ritrovò in mezzo a una strada.
Per modo di dire: un amico di Oxford era direttore del Daily Telegraph , e si affrettò a offrirgli un impiego. Nel 1989, poi, lo mandò come corrispondente a Bruxelles. Un posto di prestigio, ma noioso: si trattava di raccontare, giorno dopo giorno, l’oscuro ma prezioso lavoro di costruzione dell’intelaiatura istituzionale ed economica dell’Unione Europea. Roba non abbastanza brillante per il biondo rampollo dell’élite; non certo materiale da prima pagina. Così Johnson inventò un filone destinato a caratterizzare per trent’anni l’atteggiamento dei tabloid e della stampa populista britannica. Per schematizzare: i funzionari dell’Unione sono una manica di cialtroni, iperpagati per dedicarsi a compiti futili che servono solo a rompere le scatole ai sudditi di Sua Maestà. Nel frattempo Francia e Germania costruiscono un superstato destinato a soggiogare la Gran Bretagna. Per cinque lunghi anni, il futuro primo ministro raccontò ai lettori del Telegraph che “Bruxelles” voleva standardizzare la misura delle bare, costringere i pescatori inglesi a indossare retine per i capelli, proibire le salsicce e le patatine al sapore di gambero, regolamentare le taglie dei preservativi (respingendo una richiesta italiana per adottarne una extra-small), assumere un corpo scelto di annusatori per uniformare l’odore del letame. Ma anche –nei presunti deliri di potenza della burocrazia comunitaria- rendere obbligatoria una carta d’identità europea, costruire l’edificio più alto e più costoso del mondo come sede dell’Unione, consentire l’elezione di cittadini stranieri nei parlamenti nazionali.
Le fonti? E chi ha bisogno di fonti? La vice di Johnson nell’ufficio di Bruxelles, Sonia Purnell, racconta in una biografia che un giorno, davanti a un caffè nel cucinino della redazione, prese in giro un funzionario di palazzo Berlaymont. Qualche giorno dopo ritrovò le sue parole stampate sul Telegraph , e attribuite a “una fonte UE”. Una sera Bruno Dethomas, portavoce di Jacques Delors, presidente della Commissione europea, commise l’errore d’invitare Johnson a bere qualcosa a casa sua. Qualche giorno dopo, dalle pagine del Telegraph , apprese di vivere in un castello da favola, naturalmente a spese dei contribuenti europei. Lo stesso Johnson, parlando qualche anno dopo con la Bbc, esponeva così la sua filosofia professionale: “Ogni cosa che scrivevo da Bruxelles era come lanciare un sasso oltre il muro, verso il giardino dei vicini. Era stupendo sentire il rumore dei vetri che si rompevano. Mi dava una bizzarra sensazione di potere”. Chris Patten, allora presidente del Partito conservatore, affermava che “Johnson è una delle colonne del falso giornalismo”. Ma una delle leggi più antiche dell’economia –teorizzata nel ‘500 da un inglese, Thomas Gresham- avverte che la moneta cattiva scaccia quella buona. Così i corrispondenti seri dei giornali seri cominciarono a ricevere telefonate poco amichevoli da Londra, con l’ingiunzione di approfondire l’ultima fiaba di Johnson.
Protestavano, ma si sa come ragionano editori, direttori e capiredattori: “Chissenefrega della suddivisione dei contributi agricoli, com’è ‘sta storia che le banane non potranno essere troppo curve?”. Poco a poco, larga parte del pubblico britannico finì per assorbire un’immagine clamorosamente distorta dell’Unione, delle sue istituzioni, dei suoi compiti, dei pro e dei contro dell’adesione britannica.
A salutare il rientro in patria di Boris Johnson, nel 1995, fu la pubblicazione di una conversazione telefonica del 1990, a dir poco scabrosa. L’interlocutore era Darius Guppy, suo amico del cuore a Eton e a Oxford, sotto inchiesta per una truffa assicurativa da quasi due milioni di sterline, con tanto di falsa rapina. A Johnson, Guppy chiedeva l’indirizzo di casa di un giornalista del News of the World che indagava sulla truffa, “per potergli fare gli occhi neri, spaccargli una costola, o qualcosa del genere”. Il futuro primo ministro, che nel colloquio prometteva di accontentare l’amico, sostenne di non aver poi dato seguito. Guppy, dopo un po’ di galera e una condanna a cinque anni, riparò in Sudafrica. Johnson se la cavò con una ramanzina del direttore, il solito amico di Oxford. Quanto all’editore, il famigerato Conrad Black, gli affidò una rubrica sullo Spectator , prestigioso settimanale del gruppo; e quattro anni dopo lo insediò alla direzione. In redazione, secondo i colleghi, Johnson si faceva vedere di rado. E non mosse un dito per frenare il razzismo e l’antisemitismo di Taki Theodoracopulos, un commentatore di origine greca che scriveva cose come “gli africani hanno un quoziente d’intelligenza mediamente più basso” e “gli ebrei trafficano sull’Olocausto”. Fino a un servizio rievocativo sullo sbarco in Normandia: “In lode della Wehrmacht. La vera storia del D-Day è l’eroismo dei soldati tedeschi, che combatterono nobilmente fino alla morte pur essendo molto inferiori di numero”. Nel 2001, quando dopo 14 anni Johnson abbandonò il giornalismo per farsi eleggere deputato con i Conservatori, molti pensarono: se non altro, farà meno danni. Sollievo prematuro, a dir poco.