Come ci cambierà il coronavirus

di Fabio Morabito

Quello che colpisce più di tutto è la fragilità. La fragilità delle nostre abitudini di vita, del nostro sistema sociale, della nostra economia, che poi sarà l’ultima vittima del coronavirus, per l’effetto-panico che la sta travolgendo.

Gli ottimisti confidano in una virtù italica della riscossa, che dopo le macerie ci renderà più forti. E il miracolo economico, quindici anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale che ci ha visto sconfitti, ne sarebbe la prova storica. Ma è veramente così, o è solo una figura retorica che ci attribuisce meriti genetici che sono il valore dei nostri padri o nonni, ma è tutto da vedere che siano qualità anche nostre?

Altri, sempre tra gli ottimisti, incensano l’unità nazionale che la malattia (o meglio, la paura della malattia) ci avrebbe d’incanto fatto trovare. Con le canzoni urlate dai balconi, grida di solidarietà e fiducia, quando i negozi ristoranti e alberghi chiusi spronfondano l’Italia nella recessione. Recessione di cui (ancora) non si parla con la dovuta gravità, nonostante i tonfi della Borsa: finora gli annunci sono per una retromarcia di piccoli decimali ma è evidente che il Pil, il Prodotto interno lordo, non potrà che risentire brutalmente del fermo di una parte importante della nostra economia. Chissà quanto lungo – poi – non si sa.

Un popolo (quasi) agli arresti domiciliari per decreto governativo, conseguenza di una decisione drastica che però sta diventando modello per l’Europa. Con qualche attore che non si convince (Boris Johnson, premier della Gran Brategna, Paese che dall’Unione europea ha già deciso di uscire) e sceglie un altro copione. I virologi più noti, continuamente intervistati in Italia, giudicano più che strampalata, addirittura pericolosa, l’idea di Johnson dell”l’immunità di gregge”. Una scelta “irresponsabile” è il coro. Si tratta della teoria che consiglia di lasciare che il virus faccia il suo corso e le sue vittime, perché poi i contagiati-guariti farebbero da scudo agli altri.

C’è l’amaro di una scelta che, qualora venissero decimati gli anziani (tra i quali il virus fa il maggior numero di vittime) potrebbe risolvere cinicamente un problema di welfare senza rallentare i consumi, il commercio, la produzione industriale. Anche se poi magari la Gran Bretagna sarà protetta lo stesso dalla pandemia, perché aiutata dai suoi confini naturali, circondata com’è dal mare, è possibile che il suo originale primo ministro ceda al protocollo della cautela. Ci sono poi quelli che si potrebbero definire, per il loro andare controcorrente, una sorta di negazionisti della pericolosità del virus. Sono quanti (medici, opinionisti) dicono che è tutto sbagliato quello che si sta facendo, che non sarà l’isolamento a salvare l’Europa diventata in questi giorni – nei fatti – l’epicentro della pandemia. Chiudere le scuole ma perché, se i bambini si possono contagiare ma non sono – statisticamente – suscettibili di complicazioni? Meglio che la malattia faccia il suo corso – è la tesi che in qualche modo deve aver convinto anche Johnson – perché altrimenti una volta che si esce dagli “arresti domiciliari” ecco che si può di nuovo essere contagiati.

Di fronte a tanti dubbi, l’Italia di questi primi giorni di coprifuoco sanitario sta dimostrando una disciplina inaspettata, a parte gli assalti ai treni per la fuga dalle regioni del Nord al Sud, alla breve vigilia dello scoccare del decreto, e pochi altri episodi che non sbiadiscono quella che è una risposta di massa, anche solidale, silenziosa, fiduciosa se non rassegnata. C’è un’unità nazionale alla prova del tempo: un conto sono i nervi saldi dei primi giorni, un conto è se l’emergenza si dovesse protrarre anche oltre i tempi previsti, come esperti virologi e infettivologi sostengono sarà necessario. E intanto cresce tra i reati la violenza domestica. In questo limbo dell’attesa, che sembra una stagione di guerra (cosa ci sarà dopo? Le macerie, che non saranno degli edifici ma del tessuto sociale), sembra ovvio dire “nulla sarà come prima”. Almeno non lo sarà nella percezione della nostra vulnerabilità, nell’incertezza che si dovrà fare i conti in futuro con la possibilità di un altro virus, e chissà che non sia più potente e letale. Il ruolo dell’Europa, che si è sbriciolato anche in questa occasione, dovrà essere unificante e solidale. La politica della salute è gestita in piena autonomia dagli Stati, e negli stessi Stati ci sono le voci diverse delle autonomie regionali (come in Italia, come in Germania, ad esempio). Ma questo non impedisce di trovare una politica condivisa che sappia fronteggiare le emergenze mettendo in sicurezza il lavoro, le tutele, i servizi essenziali. Lo scrittore Antonio Scurati, cinquantenne, sulle pagine del Corriere della Sera parla della sua generazione di italiani come della più fortunata nella storia dell’umanità.

“Noi siamo stati guerrieri da salottto, bagnanti sulle spiagge dei migranti” scrive Scurati. “Ora – si chiede – entrati nell’età che dovrebbe concedere la maturità, raggiungiamo il “punto alto” della nostra esistenza, siamo chiamati alla prova. Ce ne mostreremo all’altezza?”. In questo interrogativo ci sono le scelte e i comportamenti del futuro. Che chiedono una responsabilità alla quale non siamo abituati. Che è prima di tutto quella del rispetto dell’ambiente, il cui saccheggio è anche una della probabili cause della diffusione delle pandemie. Ma l’ultima lezione di questi giorni difficili è la consapevolezza che il nostro comportamento interagisce con il benessere di tutti.

Solo così possiamo capire che il metro di distanza da uno all’altro, che ci viene chiesto per scoraggiare il contagio, è un metro di libertà.

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