di Fabio Morabito
La necessità è di fare in fretta, e bene, cogliendo l’occasione drammatica di questa emergenza sanitaria per resettare tutto quello che in Italia è stato ostacolo. A cominciare dalla burocrazia.
Per continuare con una lotta senza tentennamenti all’evasione fiscale, che non va combattuta minacciando il carcere ma con il sequestro delle proprietà in misura esponenziale rispetto alle somme evase. La chiusura temporanea delle attività imposta dalle misure di sicurezza per limitare il contagio consentirà di “tracciare” il lavoro nero. Il Prodotto interno lordo che da sommerso verrà fatto emergere può arginare il tracollo della recessione.
Negli ambiti di profitto consegnati ai giganti del web, con percentuali da strozzino affidate ai vari booking.com, si deve sostituire lo Stato, che potrà rilanciare il turismo gestendo il servizio di prenotazione degli alberghi monetizzandolo in servizi e occupazione. Non ci sarà ripresa se non sarà organizzata prima una strategia di scelte forti, possibilmente condivise ed europee, altrimenti percorse anche da soli, utilizzando con efficacia quello sforamento di bilancio concesso da Bruxelles.
Investire subito per difendere il lavoro, per produrre reddito. Fare debito – questa volta è lecito – ma senza che questo debba essere la condanna delle nuove generazioni. L’insistenza di Palazzo Chigi sui cosiddetti coronabond ha una ragione semplice: l’Italia già sborsa sessanta miliardi l’anno di euro solo per gli interessi sul debito, e sono soldi buttati. Non producono niente, solo ricchezza nelle tasche di chi ha investito sui nostri titoli di Stato.
La ripresa va finanziata a tasso zero o quasi. Se l’Europa ci aiuta, lo farà anche nel suo interesse. Non cresce l’Unione se l’Italia si perde.
Ma se l’Europa non ci dovesse aiutare, o non ci dovesse aiutare abbastanza, altre strade vanno comunque trovate. Come pagare in titoli di Stato una parte degli stipendi oltre un certo tetto. Come coinvolgere tutti a finanziare la ripresa. Insieme, se ne può uscire. Con l’Europa sarà meglio, e meglio per tutti. L’Italia da sola può prendere decisioni dolorose ma che non devono essere un palliativo, uno spreco, un sollievo temporaneo. Vendere altri pezzi del proprio patrimonio non serve, e toglie risorse al futuro (come i dividendi delle controllate).
Anche la patrimoniale, che in sé non dovrebbe scandalizzare perché la situazione è tale da giustificarla pienamente, avrebbe un esito frustrante: pagherebbe qualche interesse del debito, non basterebbe a finanziare la ripresa. Servono scelte altrettanto impopolari, ma strutturali. L’aumento dell’età pensionabile, magari con una riduzione progressiva dell’orario di lavoro; l’aumento di un paio di punti dell’Iva che, fuori da quest’emergenza, è stato giustamente evitato, ora potrebbe essere una necessità. Ma il motore ce lo deve mettere l’Europa.
E la svalutazione dell’euro – moneta che durante questi giorni di pandemia si è rafforzata, indebolendo l’export – non può essere un tabù ma anzi dovrebbe essere considerata un’opzione. Finanzierebbe la ripresa, che serve rapida, risponderebbe all’aggressività dei mercati esteri, toglierebbe potenza al reddito ma distribuirebbe lavoro. L’Italia, come gli altri Paesi che non vogliono affondare ma devono provare a crescere anche in questa tempesta, dovrà correre su un doppio binario. L’impegno sulla politica nazionale, e – per quanto sarà possibile – un impegno solidale nella politica europea. Sono una risposta, come si è detto, i coronabond. Meglio chiamarli così che eurobond, ammesso che basti questo a rassicurare i Paesi del Nord che si tratta di una scelta una tantum, legata a una contingenza imprevedibile e devastante. Titoli di Stato garantiti da tutti.
Un finanziamento per uscire da una crisi che è comune, non lasciando nessuno indietro. È giusto che l’Italia insista. L’Europa deve prendere le sue garanzie sul rispetto del pagamento del debito, non preventivamente lasciando Roma allo strozzinaggio dei mercati.
Ma c’è un altro scenario dove l’Europa non può proseguire in ordine sparso. Ed è quello di una presenza di “Unione” sulla tecnologia, sul controllo dei beni essenziali e dei diritti, sulla privacy, sulla – è questa stessa emergenza a suggerirlo – tutela della salute. Non è possibile che con lo scoppio di una epidemia di questa portata strumenti sanitari essenziali, a cominciare dalle modestissime mascherine di sicurezza, siano affidati a un produttore di un altro continente. Che può avere la stessa emergenza, e decidere di produrre solo per sé. La riconversione non basta in questi casi, perché ci deve essere il tempo per le autorizzazioni sanitarie, e possono essere richiesti livelli di produzione esigibili nell’immediato. Le disuguaglianze vanno combattute, recuperando la dignità del lavoro in tutte le sue declinazioni: economiche e di salvaguardia della salute e della previdenza. Le necessarie politiche di austerità non devono togliere a tutti, ma saper garantire i più deboli. Ci vogliono nuove regole, vocazione all’autosufficienza, sinergie di innovazione e produzione. Un’Europa che sappia fare queste scelte, non accantonando – ma anzi rafforzando – il percorso “verde” che si è già scelto, è un’Europa che si può risollevare in fretta. Ma facendo presto, perché il futuro non è chissà in quale anno lontano. Il futuro si decide subito.