di Fabio Morabito
Quando, nella vigilia difficile della trattativa europea su come e quanto intervenire per risollevare le economie dei singoli Stati, il primo ministro Giuseppe Conte è sbottato con un “faremo da soli”, e un “non firmo”, ha forse raggiunto il suo apice di popolarità̀ e consenso in Italia. Il sentimento diffuso nel nostro Paese era di un’Europa che non ci capisce, di una Germania (più̀ che i piccoli Paesi Bassi, incaricati di fare apertamente i “cattivi”) che ha sempre messo a profitto all’occorrenza piegandole ai suoi interessi le regole di Bruxelles, ma che dimentica in fretta il soccorso avuto negli anni passati, già con la cancellazione di parte pesante dei debiti di guerra. Ora l’Italia è in ginocchio, perché́ qui in modo più̀ devastante è dilagata la pandemia del coronavirus, con più̀ morti che in qualsiasi altro Paese d’Europa (anche se, rispetto alla popolazione, in Belgio e Spagna la situazione nei numeri ufficiali è più̀ tragica). E la severità̀ delle economie del Nord, la loro volontà̀ di non condividere il debito pubblico (non quello passato, che sarebbe stato ingiusto, ma quello nuovo per finanziare la ripresa in condizioni eccezionali), ha mostrato agli occhi degli italiani un’Europa incapace di una visione e di una responsabilità̀ comune. Perché́ il nodo è essenzialmente questo. Il debito. L’Italia ha un debito pubblico esagerato, sul quale paga circa sessanta miliardi di interessi l’anno. Per ridurre questo debito il nostro bilancio ogni anno dovrebbe avere quindi un attivo di oltre sessanta miliardi. Solo con un formidabile attivo si andrebbero a intaccare gli attuali 2.443 miliardi di debito (al 31 gennaio scorso). Quindi non basta il pareggio di bilancio, da qualche anno introdotto nella Costituzione, e neanche un modesto attivo, solo oltre i 60 miliardi di entrata si alleggerisce l’enormità̀ del debito. Per aggiustare i conti da anni si taglia la spesa pubblica, si mantiene alta la pressione fiscale, con la conseguenza di soffocare la crescita e di trovarsi a pagare conseguenze sociali ed economiche drammatiche. Sull’emergenza sanitaria di oggi pesa infatti anche il progressivo taglio dei posti letto negli ospedali.
La prima necessità è quindi che gli interessi sul debito siano contenuti. La Gran Bretagna, che per affrontare le conseguenze dell’emergenza sanitaria sta mettendo sul mercato la più̀ grande quantità̀ di titoli pubblici di sempre, ha già piazzato i primi miliardi di sterline in titoli con l’interesse annuo di solo lo 0,6%. L’Italia alle condizioni attuali può̀ riuscirci solo se sarà̀ l’Europa a garantire il debito. Da qui la richiesta di quelli che sono stati chiamati “coronabond”, un nome che lega l’emissione di titoli a un’emergenza unica e si spera, forse ci si illude irripetibile.
La strada del libero mercato nel piazzare i titoli di Stato porta a un precipizio e allontana l’Italia dall’Europa, e non basta in questa situazione eccezionale il debito che acquista la Banca centrale europea.
In questo quadro difficile, il vertice tra i capi di Stato e di governo dell’Unione (il Consiglio europeo) del 23 aprile scorso, che avrebbe dovuto decidere una soluzione concordata, non ha deciso. O almeno non ha deciso del tutto, rinviando la probabile intesa alla prima settimana di maggio. Quello che ora c’è è la cornice, si chiama “Fondo comune per la ripresa” un contenitore di vari interventi, per lo più prestiti, di quali si è già̀ parlato: i soldi del Mes, Meccanismo europeo di stabilità, per le spese della Sanità, e solo per quelle; il fondo SuRe (cento miliardi) per finanziare gli ammortizzatori sociali; gli interventi della Bei, la Banca europea degli investimenti, per sostenere le imprese.
La novità̀ è il “Recovery fund”, un fondo per la ripresa che emetterà̀ titoli garantiti dal bilancio dell’Unione europea. Anche questo è un contenitore dentro al contenitore. C’è la forma, infatti, ma non la sostanza. Allo stato attuale delle trattative questa proposta pesa per trecento miliardi di euro, mentre Italia, Spagna e Francia vorrebbero che valesse fino a cinque volte tanto.
La proposta tecnica che dovrebbe definirne i contenuti è affidata alla Commissione europea. Giuseppe Conte ha rimarcato la necessità di fare presto, ma per legare come la Germania vuole al Bilancio europeo (quello del nuovo settennato si apre il primo gennaio prossimo) prestiti e sussidi ci vorrà̀ tempo. Al di là delle dichiarazioni ad effetto e retoriche il punto di caduta, e cioè̀ fino a quanto si potrà̀ concedere alle richieste dei Paesi più in difficoltà, lo deciderà̀ Angela Merkel. La Cancelliera tedesca è naturalmente in perfetta sintonia con la connazionale Ursula von der Leyen, che presiede la Commissione europea. Giuseppe Conte, che peraltro ha già̀ aperto al Mes, sul quale si è trovato a mediare perfino tra gli alleati di governo (Pd favorevole, Cinque stelle contrari), deve realisticamente prendere atto della sua solitudine, e quindi dell’Italia, in questa trattativa. Se un Paese non sa esattamente cosa chiedere è difficile che possa ottenere quello di cui ha bisogno. E se la povera indebitata Italia non è abbandonata al suo destino non è certo per la solidarietà̀ di cui tutti parlano, ma perché́ di Roma l’Unione non può̀ fare a meno. Se si sarà̀ troppo ingenerosi l’Italia potrebbe rivolgersi alla Cina per farsi finanziare la ripresa proprio ora che il presidente francese Emmanuel Macron è riuscito a convincere Bruxelles a prendere le distanze da Pechino. Ma che l’Italia debba scriversi l’agenda da sola è un fatto. La fase 2 ora annunciata, quella della “ripartenza”, deve prendere le mosse in Patria. Con le regole europee “sospese”, si possono statalizzare le imprese strategiche come l’Alitalia, mentre contemporaneamente va messo in sicurezza il patrimonio di innovazione che ancora l’Italia sa esprimere ed è corteggiato dai capitali esteri. I quattrocento miliardi sbandierati dal governo il 6 aprile scorso non sono un improvviso nuovo passivo, ma i soldi con cui lo Stato garantirà̀ le banche che finanzieranno le imprese italiane.
Dunque soldi che verranno sborsati solo se le imprese saranno inadempienti. Ma la burocrazia, con i canali bancari già intasati, sta rallentando, se non bloccando, mentre è indispensabile semplificare. Servono prestiti a tassi accettabili e accessibili a chi ne ha bisogno, con la rapidità e l’efficacia che altri Paesi riescono a darsi e che per l’Italia sarebbero un vero cambio di passo. È questo quello che serve, prima di aspettare l’Europa.