di Fabio Morabito
La difficile trattativa su come pianificare le risorse europee per le economie prostrate dalla crisi rischia di mettere in penombra l’occasione unica che oggi ha l’Europa di definire la sua identità. Che non è solo il progetto originale, in queste occasioni ricordato con nostalgia, rimpianto o retorica. Ma è un’identità moderna, di soggetto globale che può confrontarsi con gli altri giganti del mondo (in particolare, oggi, Stati Uniti e Cina, in competizione stretta su ogni leadership possibile) proponendo un modello che non è di supremazia economica ma ambientale, tecnologica, etica.
C’è quindi da una parte una trattativa dove quattro Stati (Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia) si sono impuntati perché ogni finanziamento per la ripresa economica sia concesso come prestito al singolo Paese beneficiario, e quindi si oppongono al piano di misure eccezionali avvallato dalla Commissione europea. Quattro Stati di cui solo i primi due hanno aderito alla moneta unica, e che insieme hanno poco più dei due terzi degli abitanti dell’Italia. Questa trattativa è quello di cui si parla oggi. Ma dall’altra parte c’è un progetto, in cui l’Italia può e deve avere un ruolo chiave, dove l’Europa deve diventare protagonista nell’innovazione, nella sostenibilità, nella ricerca scientifica, in tutto ciò che sarà futuro coniugato al progresso. L’Italia il suo contributo può (e deve) darlo perché – nonostante i tanti problemi cronicizzati del Paese – è già all’avanguardia in molti settori strategici.
Berlino lo sa meglio di tutti, e nella trattativa per gli interventi post-pandemia ha chiarito dopo le prime rigidità quanto sia indispensabile non lasciare dietro Roma. I colossi dell’automobile tedesca dipendono dal contributo della componentistica italiana. Prima ancora delle dichiarazioni solidali del Presidente tedesco Frank Walter Steinmeier e – a seguire – della Cancelliera tedesca Angela Merkel, che hanno avvertito come il benessere della Germania sia “strettamente legato” a quello dei Paesi vicini, era stata la grande industria ad esprimersi. In videoconferenza con la Cancelliera, gli amministratori di Bmw, Daimler e Volkswagen hanno avvertito: “Non aiuta se la Germania avanza e poi tutto in Italia o in Spagna è ancora fermo”. E il suggerimento è stato esplicito: serve un approccio europeo alla crisi economica. L’allerta dei giganti tedeschi, preoccupati non solo dalla crisi dei mercati ma anche del blocco di produzione della componentistica, è la chiave di come la “solidarietà” sia un termine non privo di effetti pratici anche per chi si trova nella condizione di aiutare piuttosto che essere aiutato. La collaborazione tra eccellenze è poi il requisito indispensabile per la crescita comune. Non è solo una questione di prodotto interno lordo: l’Italia, nell’Europa che guarda allo spazio, alle nuove tecnologie, al 5G, all’agricoltura monitorata dal satellite, ha già una funzione di primo piano. Roma ha bisogno dell’Europa, ma l’Europa ha bisogno di Roma. Soprattutto ora che con la Brexit una potenza come il Regno Unito ha preso un’altra strada, indebolendo l’Unione ma alla fine probabilmente indebolendo sé stessa.
Era tempo che non si discuteva così chiaramente di un disegno potente dell’Europa, e l’occasione è data dalla convinzione acquisita sull’evidenza: l’emergenza per la pandemia è un evento epocale, ha rivelato la fragilità della nostra condizione, le economie evolute non sono più protette da tutto, il conto degli squilibri non lo pagano più solo i Paesi poveri. In questo l’atteggiamento dei quattro Paesi “frugali” (li ha chiamati così per la prima volta la stampa britannica) – Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia – è prima di tutto miope nella sua rigidità, che è misurata sulle loro economie più semplici e protette da conti pubblici in ordine, che però non sono prive di debolezze. Si oppongono alla proposta già frutto di una mediazione, firmata da Germania e Francia come “piano di soccorso” per la ripartenza, che è stata corretta (addirittura in meglio) dalla Commissione europea guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen. I famosi e subito archiviati coronabond, e cioè prestito obbligazionario garantito non solo dai singoli Paesi ma da tutta la Comunità, erano il sistema più semplice per affrontare la crisi con misure eque. Contro di loro un’opposizione quasi ideologica. In nuovo piano della Commissione potrebbe essere una risposta adeguata, se non ritarderanno troppo i tempi per applicarlo. Per l’Italia la necessità è tenere il più basso possibile il tasso d’interesse sui Titoli di Stato per non esserne strozzata.
Roma paga ogni anno sessanta miliardi in interessi sul debito pubblico, e sono soldi che non fruttano lavoro e espansione, ma sono una zavorra decisa dalle regole di mercato influenzate anche da fattori estranei come le “pagelle” di agenzie internazionali, che considerano i nostri titoli al limite della spazzatura. Questo nonostante Roma abbia sempre pagato i suoi debiti, proprio come le economie considerate più virtuose. Ma che non hanno la stessa ricchezza privata che ha l’Italia. A fronte di 2.400 miliardi di debito pubblico la ricchezza finanziaria privata supera i seimila miliardi. Dare all’Italia la possibilità di pagare gli stessi interessi vicino allo zero delle economie con conti più equilibrati significa permettere di finanziarne il rilancio senza affondare i conti pubblici futuri. L’Italia non ha bisogno di sovvenzioni ma di giocare la partita alle stesse condizioni degli altri. Il senso della solidarietà – termine molto evocato in queste settimane di trattativa – è in questo: il rilancio dell’Europa avviene insieme.
Un’Europa che cambi passo, che prenda l’iniziativa. Le condizioni ci sono, a cominciare da quelle “storiche”, come il mercato unico, indispensabile per diventare competitori globali. Sul digitale Bruxelles è in ritardo rispetto a Stati Uniti e Cina, ed è nei programmi della nuova Commissione recuperare e proporre una via propria. Temi quali la sicurezza e la privacy non possono essere minacciati, o addirittura affidati a soggetti privati o Stati fuori dai confini dell’Unione. La pandemia ha mostrato come l’Europa sia dipendente dalla Cina – che con la sua politica di bassi costi ha drogato il mercato – perfino per approvvigionarsi di mascherine protettive. Che non ci sia indipendenza nella produzione di tutto ciò che è necessario per un’emergenza sanitaria è una delle contraddizioni più pesanti della nostra società del benessere.La crisi ha messo in evidenza quale è il tracciato. Ora si tratta di percorrerlo insieme. Con la consapevolezza che l’Europa non ha solo doveri verso se stessa, ma ha una missione, dove i valori della pace, del rispetto dell’ambiente, della giustizia sociale, della solidarietà sono il senso anche del rapporto con gli altri Paesi e realtà. Europa, svegliati.