di Fabio Morabito
La nuova Europa, se una nuova Europa è nata dall’alba del 21 luglio, quello dell’accordo sul piano di sussidi e prestiti che vuole guarire le ferite del tracollo economico provocato dalla pandemia, ha già il suo banco di prova. Ed è nella politica estera, dove l’Unione ha un percorso di assenze, balbettii, differenze e diffidenze che spesso hanno portato al nulla. Il 4 agosto, un’esplosione nel porto di Beirut, capitale del Libano, ha travolto un popolo già in ginocchio, già affamato, piegato da un’inflazione al 90% e da una crisi politica e sociale che sembrava essa stessa una pietra tombale. E questa potrebbe essere l’occasione – e Bruxelles sembra averlo capito – di un nuovo ruolo nella politica estera per l’Unione europea.
Beirut è stata colpita da un’esplosione, nel punto vitale dell’economia nazionale – il porto – con oltre duecento vittime, un bilancio che cresce ancora, alimentato dai settemila feriti. E dove in 300mila sono rimasti senza un alloggio perché le loro case non ci sono più. Distrutte. Un attentato, o un incidente: già il dubbio che ha percorso i giorni successivi alla tragedia sembra raccontare il destino di una città abbandonata al martirio. Perché l’incidente come causa di questa tragedia è forse peggio di un attentato: significa che l’inettitudine, che ha lasciato per anni un deposito di sostanze pericolose nel porto (dove sarebbero dovute solo transitare) è stata più forte di tutto, in un’emergenza sociale crescente che dovrebbe allarmare, non scivolare verso la rassegnazione. Un deposito di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, quello che in minime quantità è usato per il ghiaccio secco o come fertilizzante agricolo, ma che è anche un ingrediente di esplosivi potenti. Che ha provocato disastri in tutto il mondo. Ad Halifax, in Canada, morirono in duemila uccisi dall’esplosione di un deposito di nitrato di ammonio: ma è stato 103 anni fa, e il tempo avrebbe dovuto educare alla sicurezza.
Il Libano è Asia, Medio Oriente, ma è una porta verso l’Europa che si affaccia sul Mediterraneo. Dalla cultura europea è coinvolto e contaminato. È il laboratorio di convivenza tra religioni portato al punto estremo di una Costituzione che prevede la divisione dei poteri tra le comunità religiose. Sono 18, ci sono incarichi divisi tra tutti, e alle prime tre comunità (cristiani maroniti, musulmani sciiti, musulmani sunniti) sono affidati i ruoli principali della politica. Il primo ministro è sunnita, il presidente della Repubblica è maronita, il presidente del Parlamento sciita. Su questo equilibrio artefatto, un “manuale Cencelli” scritto in arabo, il Libano ha costruito la sua forza, dopo quindici anni di guerra civile, ma anche tutta la sua fragilità di oggi. Gli interessi contrapposti dei sauditi e iraniani guardano al Libano come una provincia distaccata da manovrare, da controllare. E l’Europa- se non per i tanti soldati sul territorio, più di tutti gli italiani, impegnati da 14 anni con la missione Unifil dopo la guerra con Israele – finora è sembrata distratta: il Libano è povero di materie prime. Ora l’attenzione europea si è svegliata. Il Presidente francese Emmanuel Macron è stato il primo. Con un messaggio efficace: “Il Libano non è solo” detto in francese, e subito dopo in arabo. E poi comportandosi di conseguenza, andando di persona a Beirut due giorni dopo l’attentato. Parlando di sostegno, amicizia, solidarietà; abbracciando una donna, dentro la folla che lo esaltava come liberatore. Prendendo le distanze dalla politica locale accusata dal popolo di corruzione, ma anticipando un “patto” per le riforme. E parlando di aiuti prima europei (e poi, internazionali). E anche qui è stato efficace: videoconferenza con le Nazioni Unite e organizzazione immediata di una raccolta di aiuti (i primi 250 milioni di euro). I motivi di questo tempismo possono essere diversi e non tutti disinteressati. Macron cerca una visibilità internazionale positiva che cancelli la scommessa perduta in Libia (dove aveva appoggiato il comandante Khalifa Haftar, aggressore del governo legittimo riconosciuto dall’Onu). E poi la storia della Francia è intrecciata con quella del Libano. Alla Francia era stato affidato il controllo del Paese dalla Società delle Nazioni, un secolo fa. Il Libano ottenne poi l’indipendenza nel 1943, quando la Francia era indebolita dall’occupazione nazista. La lingua francese resta citata nella Costituzione libanese, dopo l’idioma ufficiale, che è l’arabo. E forse Macron potrebbe essere interessato al Libano anche in chiave anti-turca. La Turchia non è ancora comparsa come attore politico in questo lembo del Medio Oriente, che pure fu dominato per quattro secoli dall’Impero ottomano (proprio prima di passare sotto il controllo francese); ma di fatto è l’unica vera alleata del Qatar, il cui crescente interesse è dimostrato dall’impegno economico a Beirut. E Macron è il grande avversario del Presidente turco Erdogan, dal quale è stato di fatto sconfitto in Libia, avendo Ankara scelto di sostenere il governo legittimo di Tripoli respingendo l’assalto di Haftar.
Quali che siano le motivazioni dell’Eliseo, le ragioni della politica – spesso meno nobili delle apparenze – non compromettono necessariamente il valore di un’iniziativa. E Macron ha dato un segnale, che è una sorta di “svegliati Europa”.