di Fabio Morabito
Dopo il Consiglio europeo di fine luglio, quello che ha deciso sussidi e prestiti per gestire l’emergenza economica provocata dalla pandemia, sembrava che la stabilità del governo guidato da Giuseppe Conte fosse ormai cementata a lungo. Nell’intesa raggiunta, sia pure facendo la tara con gli impegni che ogni Stato membro dovrà prendere per accedere ai benefici stabiliti, il Paese più premiato dal programma di finanziamenti è risultato proprio l’Italia. A questo si aggiunge che i ricorrenti sondaggi sulle personalità politiche nazionali premia come popolarità Giuseppe Conte.
Naturalmente ogni cosa va vista nel suo contesto e in questo caso è complesso. L’Italia è risultata fin dall’inizio il Paese europeo più colpito dalla pandemia anche in termini di conseguenze economiche (alla fine, non lo sarà: già adesso in una situazione peggiore è la Spagna). Il percorso per ottenere i finanziamenti è dilazionato nel tempo, un po’ per necessità (è vincolato al Bilancio europeo) un po’ per i timori che Bruxelles ha su un futuro cambio di governo in Italia: quello attuale garantisce un europeismo dichiarato ed effettivo; un altro esecutivo non darebbe le stesse garanzie. Questo può essere considerato un pregiudizio: la Lega ha già governato per un anno – in alleanza con i Cinque Stelle nel primo governo Conte – e i tanto temuti conti di bilancio presentati dall’Italia sono stati alla fine non brillanti, ma migliori del disavanzo autorizzato. Pregiudizio o no, è un fatto però che anche Berlino – muovendosi con cautela sul filo della non ingerenza – abbia dato evidenti indicazioni su quale situazione preferisca a Palazzo Chigi. E Conte riscuote ora una simpatia diffusa da parte di quegli stessi leader europei che probabilmente ne avevano sottovalutato l’abilità, l’attitudine alla mediazione, e lo avevano accolto con diffidenza quando era alla guida del precedente esecutivo.
Con questa premessa, e considerato che i numeri del governo sono abbastanza saldi nonostante la poca fiducia degli alleati nella determinazione di Italia Viva a sostenere la coalizione, non ci sarebbe motivo di parlare di scenari di crisi. L’esecutivo ha – avrebbe – tutti i “fondamentali” per approdare fino alla fine della legislatura. Eppure già nel cuore dell’estate si è tornato a parlare, dopo una breve tregua conseguente agli esiti del vertice di Bruxelles, di crisi del governo. Non solo di un rimpasto ma di un avvicendamento a Palazzo Chigi, oppure di elezioni anticipate.
I motivi sono essenzialmente tre. Il primo: le (parziali) elezioni amministrative in calendario a settembre, che – oltre a circa milleduecento Comuni – riguarderanno la guida di sette Regioni (Veneto, Campania, Toscana, Liguria, Marche, Puglia e Valle d’Aosta). In contemporanea, si svolgerà il referendum costituzionale sulla riduzione dei parlamentari, ma non sarà questo a incidere sugli equilibri politici anche per la posizione defilata del Pd. Sul confronto nelle Regioni c’è stato un avvicinamento tra i due principali alleati di governo, Cinque Stelle e Pd, che comprende la possibilità (ma non la ricerca a tutti i costi) di un’alleanza. Il che, già come principio, dovrebbe rafforzare l’esecutivo, perché significa che gli attori di governo riconoscono un’identità comune. Ma queste alleanze regionali, pur perorate con cautela da Conte, non sono sempre possibili soprattutto dove i Cinque Stelle sono stati forti oppositori del governatore Pd (è il caso della Campania più che della Puglia). Tutto questo è ragionevole, ma siccome si vince con l’aritmetica e il centrodestra si presenta compatto a sostenere i suoi candidati, si suppone che gli esiti finali premieranno quest’ultimo. E su un esito delle Regionali che premi ampiamente il centrodestra si ipotizza, se non addirittura si dà per scontato, una caduta del governo.
Conte sostiene che l’esito delle Regionali non debba influire sulla stabilità del governo. E ha ragione: l’amministrazione locale è cosa diversa, con un sistema elettorale diverso. Se anche il centrodestra dovesse stravincere, cosa c’entra il governo nazionale? Palazzo Chigi si deve occupare dell’impegnativo percorso già tracciato e di questo deve rendere conto agli italiani. Qui si parla di sfiduciarlo per interposta urna elettorale. Ma aver ragione non basta: lo scenario che si prefigura è – in caso di disfattauna resa dei conti all’interno del Partito democratico che potrebbe aver ripercussione sull’esecutivo. Il voto è il primo elemento di una crisi possibile.
Il secondo è il Mes, ovvero il Meccanismo europeo di stabilità. Il Fondo Salva-Stati. C’è una polemica continua, anche tra le componenti di governo, se usare o meno i soldi che il Fondo mette a disposizione per affrontare l’attuale emergenza economica (si tratta di un prestito agevolato, massimo 36 miliardi circa, a un tasso dello 0,13%, che dovrà essere speso nel settore della Sanità). I Cinque Stelle sono contrari, il Pd è favorevole. Il centrodestra all’opposizione è altrettanto diviso: contrari Lega e Fratelli d’Italia, favorevole Forza Italia. Chi è contrario sostiene: si tratta di un prestito che comporta delle condizioni. Chi è favorevole sottolinea: per la Sanità l’Italia dovrà affrontare comunque quelle spese, tanto vale che lo faccia pagando un basso interesse.
In realtà tutte le spese che l’Italia affronterà con i fondi europei sono vincolati a delle condizioni. E le condizioni per il Mes, proprio perché c’è un’emergenza straordinaria, si limiteranno all’obiettivo di spesa della Sanità, e questo non dovrebbe preoccupare. Ma se l’Italia chiede il prestito, e non lo fanno altri Paesi – è la tesi di Palazzo Chigi – questo potrebbe avere conseguenze negative sull’immagine delle condizioni finanziarie dell’Italia, e di riflesso sui mercati obbligazionari. Quindi si aspetta che anche altri Paesi (non sarà la Francia, tempo fa indicata dal primo ministro Conte, ma potrebbero essere Spagna e Portogallo) facciano la loro richiesta di prestito. Soprattutto Conte ha posticipato la decisione a settembre, fiducioso che il tempo aiuti. Secondo il primo ministro l’Italia non ha un urgente bisogno di questo finanziamento perché intanto ha avuto accesso ad altri fondi (come quello per la cassa integrazione dei tanti lavoratori sospesi dall’impiego). In questo modo è riuscito a “calmare” i due principali soci di governo, Cinque Stelle e Pd, che sulla questione sono inevitabilmente contrapposti (con l’avvisaglia di qualche cedimento da parte dei primi).
Il terzo motivo di crisi è la gestione della riapertura delle scuole. Un nodo difficile per tutti ma che per l’Italia è diventato esasperante. Il centrodestra (tranne Forza Italia, più morbida) polemizza con forza, e in particolare il leader della Lega, Matteo Salvini, ritiene che la responsabile dell’Istruzione Lucia Azzolina sia inadeguata al compito e alle difficoltà attuali. Non sembra improbabile che Salvini abbia individuato nell’insegnante siciliana dei Cinque Stelle il punto più debole del governo, dove colpire per far naufragare l’esecutivo.
Ma Azzolina non piace neanche al principale alleato di governo, il Partito democratico, che l’ha criticata più volte, in modo però accorto e con attacchi mirati, proprio per non mettere in crisi l’esecutivo già ampiamente stressato. Il Movimento, che nell’estate 2019 aveva indicato un ministro di livello come Lorenzo Fioramonti (docente universitario in Sud Africa, economista autore di testi innovativi, ammirato all’estero) per il governo con il Pd, dopo le dimissioni di quest’ultimo si è affidato a Lucia Azzolina, che all’epoca era sottosegretario. Nonostante i due siano stati eletti entrambi deputati con i Cinque Stelle, nello stesso ruolo di ministro si sono mossi in modo completamente diverso. Fioramonti aveva il consenso dei sindacati, Azzolina ha portato lo scontro con la parte sociale al peggior livello degli ultimi anni.
Fatto è che la scuola sta investendo in mascherine (è stato promesso che ne saranno comprate 11 milioni al giorno, che in cento giorni a 23 centesimi l’una vorrebbe dire 250 milioni di spesa) e circa due milioni e mezzo di banchi monoposto, di cui qualche centinaio di migliaia fatti di plastica e con “le rotelle”, cosa che sorprende, considerando che si tratta di un arredo pensato per socializzare in classe (avvicinandosi, mettendosi in cerchio uno accanto all’altro) e non per distanziare, come teoricamente si vorrebbe per contrastare il rischio della pandemia. Questo mentre non sono state neanche ricostruite le scuole abbattute o rese inutilizzabili dagli ultimi terremoti, e anche la recente visita del primo ministro Conte ad Amatrice (nel quarto anniversario del sisma) è stata l’occasione per ricordare i ritardi rispetto a queste tragiche emergenze.
Fioramonti ora è approdato nel gruppo Misto, con la colpa di aver bruciato la grande occasione politica che gli era stata offerta. In nome di un principio “mi dimetto se non vengono aumentati di tre miliardi di euro i finanziamenti alla scuola e alla ricerca” che è stata sua giusta battaglia (e coerente con il programma elettorale dei Cinque Stelle, che chiedeva anzi molto di più) ma ingenua sul piano della logica della politica che è più complessa di una richiesta logica. Paradossalmente il governo spenderà più di tre miliardi aggiuntivi nella scuola ma ad aprire la cassa è stata l’imprevedibile pandemia e la conseguente emergenza sanitaria.
Il problema è che questi soldi rischiano di essere spesi male. Soprattutto a fine agosto genitori e insegnanti non sono tranquillizzati, quando un piano-rientro andava studiato già nel marzo scorso. Cioè quando era partita la cosiddetta “didattica a distanza” che metteva in contatto studenti e insegnanti ognuno costretto a restare chiuso in casa sua. Il nodo della scuola è diventato così una sorte di stress test del governo.
Ininfluente per gli equilibri dell’esecutivo invece sembra il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari che si terrà in contemporanea alle elezioni locali. Taglio approvato con maggioranza semplice al Senato ma con una quasi unanimità alla Camera (nel frattempo i Cinque Stelle, promotori della legge, hanno attraversato due governi, cooptando il consenso dei due alleati, prima Lega e poi Pd) ma che non mette in discussione l’intesa di governo. Si tratta di una “bandiera” dei Cinque Stelle in cui gli altri partiti hanno dato per lo più un consenso imbarazzato. Se il referendum confermerà la legge i Cinque Stelle certo se ne faranno un merito. Ma giusta o sbagliata che si voglia considerare la riforma, la sensazione è che in queste settimane a ridosso delle urne se ne sopravvaluti la portata. E gli italiani lo sanno benissimo, e di questi tempi sono preoccupati da ben altro.
Fabio Morabito