Il terrorismo insanguina l’Europa

di Fabio Morabito

C’è un filo conduttore nella ripresa del terrorismo in un’Europa già piegata dalla crisi pandemica, prima in Francia e poi in Austria, anche se l’apparenza attribuisce tutto a iniziative di “lupi solitari”, cioè di singoli fanatici, sia pure collegati – o istigati – da gruppi che usano il web come veicolo di propaganda capillare. Il filo conduttore sembra prendere le mosse da due fatti quasi contemporanei. Le parole del Presidente francese Emmanuel Macron che poche settimane fa hanno condannato esplicitamente il radicalismo islamico, ritenendolo destabilizzante. Parole che di fatto hanno visto Macron passare da una dichiarata visione di cultura francese “diversa e multipla”, che lo ha accompagnato all’Eliseo, a un’altra allarmata, che apre a uno scontro che naturalmente viene presentato come non religioso, ma che individua un nemico preciso. L’altro fatto è la crescente politica aggressiva di Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco che la stampa definisce, con non troppa fantasia, “il sultano”, e che con determinazione segue un disegno di crescita costante dell’influenza del suo Paese nelle aree vicine, spingendosi oltre il Mediterraneo, fin dentro l’Africa. Erdogan individua con facilità in Macron il suo principale avversario in Europa, lo accusa pubblicamente e duramente additandolo come nemico dei musulmani, invita al boicottaggio dei prodotti francesi (con Kuwait e Qatar che si sono allineati nella protesta), e questa chiave religiosa esaspera il conflitto tra Parigi e Ankara. Poi ci sono altre cause scatenanti, ma che non vanno sopravvalutate, come l’inesausta scia di sangue seguita alle vignette su Maometto pubblicate da una rivista satirica, Charlie Hebdo. Dopo la strage nella redazione di cinque anni fa, dopo un attentato davanti alla ex sede del giornale nel settembre scorso, un insegnante francese di storia è stato decapitato il 16 ottobre da un fanatico ceceno di appena 18 anni. Questo perché pochi giorni prima in classe a Conflans Saint-Honorine, vicino a Parigi, aveva mostrato- nell’ambito di una lezione sulla libertà di espressione – alcune vignette della rivista satirica su Maometto. Gli alunni di fede musulmana erano stati avvisati, e autorizzati a uscire dalla classe qualora si fossero sentiti colpiti nella loro sensibilità, ma l’episodio poi era stato raccontato sui social.

L’aggressore è stato rintracciato e ucciso dalla polizia dopo qualche ora. Nel frattempo, era riuscito a postare su internet un video con la testa della vittima e con insulti a Macron. I social network e le opportunità del web sono il palcoscenico ricorrente per esibire atti di terrorismo, per fomentarli, per amplificarne gli effetti. Alcuni intellettuali musulmani, tra loro il rettore della prima moschea di Parigi, hanno sottoscritto sul quotidiano Le Monde una dichiarazione che difende la satira anche sui temi religiosi, anche sulla propria fede. Ma altri intellettuali musulmani, che condannano senza tentennamenti la violenza contro gli autori delle vignette irriverenti, si chiedono poi se la satira che offende i sentimenti religiosi sia giustificabile. Ma anche questo dibattito può apparire fuorviante. Le vignette satiriche non sembrano l’effettiva causa della ripresa del terrorismo, ma un pretesto. E lo conferma un altro episodio, pochi giorni dopo, avvenuto ancora in Francia. Un tunisino di 21 anni il 29 ottobre scorso entra nella basilica di Nizza e uccide tre persone, decapitando o provando a decapitare con un coltello alcuni fedeli uniti in preghiera. “I cattolici hanno il sostegno di tutta la Francia” ha commentato Macron. Anche se poi è riduttivo, e ancora fuorviante, pensare a una guerra di religione.

Il ventenne Kujtim Fazelai, di origine macedone ma nato in Austria, è invece l’autore della strage a Vienna, il 2 novembre scorso, con quattro vittime. Ha sparato con un fucile e una pistola, nelle strade affollate poche ore prima che scattasse il nuovo “lockdown” per limitare la diffusione del coronavirus. Questa volta c’è anche una rivendicazione dei terroristi dell’Isis di cui Fazelai era simpatizzante. Fatto curioso, e forse non casuale: anche a Nizza si era all’immediata vigilia di un lockdown. Qui nella multiculturale Vienna c’è tra le vittime un musulmano, e tra i soccorritori due musulmani; quanto basta per pensare non a una guerra di religione, ma ad altro. Un “terrorismo liquido”, come è stato definito, che cambia a seconda delle situazioni e opportunità, che usa coltelli o armi da fuoco quando prima lo standard era l’esplosivo. Il terrorismo, in Francia, non si era mai fermato. Ma la sequenza di tre episodi così gravi, uno dei quali in Austria, ha ridestato un allarme che – in concomitanza con le sconfitte militari del cosiddetto Stato islamico, quello che chiamiamo Isis – si era andato affievolendo. A unire i tre assassini c’è prima di tutto il fatto che sono giovanissimi. Con storie diverse, che però è bene mettere a confronto, per ricostruire il percorso di disagio sociale, di mancata integrazione, di solitudine, dove il fanatismo religioso è una conseguenza più che una causa. Della strage di Vienna sono state ricostruire le inefficienze dei controlli austriaci. L’assassino era stato condannato per terrorismo, individuato come pericoloso, ma è rimasto in libertà ed è riuscito ad armarsi arrivando indisturbato a commettere una strage. Dell’assassino di Nizza, si è ricostruito come – dal suo Paese, la Tunisia – sia arrivato in Europa. Con un barchino, con altri connazionali, era sbarcato a Lampedusa. La Tunisia non è un Paese in guerra e chi è tunisino ed entra in Europa da clandestino non potrà sperare di ottenere lo status di rifugiato politico. Con Tunisi poi c’è un accordo con Roma sui rimpatri. Insomma, sembra che ci siano tutte le condizioni perché questo Paese non rappresenti un problema. Eppure è tunisina la più numerosa comunità di migranti che attraversano il Mediterraneo per giungere in Italia. I fogli di via sono inefficaci, solo un tunisino su dieci che viene espulso lascia l’Europa. Anche questo, e anche in questo, il problema è europeo.

In un quadro così complesso e drammatico, è stato motivo di polemica anche un vertice antiterrorismo voluto da Macron dopo i fatti di Vienna. Si è trattato di un confronto in videoconferenza, e i Paesi invitati sono stati la Germania (con la cancelliera Angela Merkel), l’Austria (con il cancelliere Sebastian Kurz), i Paesi Bassi (con il premier Mark Rutte), e poi erano presenti il presidente del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. L’Italia non è stata coinvolta, e non sembra casuale. Si sono discusse idee non nuove come la realizzazione di una banca dati comune, un più efficace scambio delle informazioni di intelligence, ma anche – la proposta è di Macron – l’idea di un Consiglio di sicurezza che dovrebbe vigilare, e punire gli Stati che si ritenga non proteggano a sufficienza le frontiere. E in questa intenzione c’è un paradosso, che riporta anche alle tensioni di Parigi con Roma durante il primo governo Conte, con Matteo Salvini leader della Lega al ministero dell’Interno, dove la politica italiana anti-migranti era oggetto di scontro e di reciproca propaganda, invece di essere immediatamente compresa come problema comune. Naturalmente poi si sono avute le precisazioni per stemperare i contrasti. L’invito all’Austria era perché, con la Francia, è stato il Paese colpito in questi giorni dal terrorismo; la Germania era presente come presidenza di turno alla Ue; e i Paesi Bassi si sarebbero aggiunti all’ultimo momento in virtù di una specifica richiesta del premier Rutte. Queste, le spiegazioni. Certo è che la Francia vuole muoversi sempre da protagonista, e l’unico partner fisso è la Germania, in quanto prima potenza europea. Ma Macron si sta muovendo instancabilmente, su più fronti e con più iniziative. Con l’Italia sta coordinandosi per nuovi accordi con Tunisia, Marocco e Algeria sul controllo delle partenze dei migranti. Due giorni dopo il summit antiterrorismo, il presidente francese è stato protagonista del Forum per la pace, un’altra sua iniziativa, questa volta per promuovere il cosiddetto multilateralismo.

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