Joe Biden il nuovo presidente USA

di Monica Frida

L’errore che si potrebbe più facilmente commettere, guardando dall’Europa quanto è successo negli Stati Uniti (la vittoria di Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca; la sconfitta del Presidente ora ex Donald Trump; il lungo e contestato conteggio dei voti) è quello di sottovalutare il nuovo “uomo più potente del mondo”. La percezione, anche per la scarsa incisività di Joe Biden nei dibattiti, il suo gioco di rimessa nella campagna elettorale, il suo presentarsi incolore, è quella di un leader debole e addirittura più anziano dei suoi 77 anni, apparentemente un compagnone, sostenuto dalla più giovane moglie quando si avvicina a un microfono, uomo di battute più che brillante uomo politico. Ma Biden è altro rispetto a quello che sembra. È un politico solido e straordinariamente esperto, per 35 anni senatore, per otto anni vicepresidente con Barack Obama, che a 33 anni si candidò per la prima volta alla Casa Bianca. E se solo ora ha raggiunto il suo obbiettivo di sempre è stato perché lo hanno ostacolato le circostanze, oppure ha scelto lui di “saltare un giro” quando la vittoria poteva sembrare fuori portata. Cancellando nel tempo qualche inciampo anche clamoroso, come quando circa mezzo secolo fa – ma già in politica – si oppose all’integrazione dei neri con i bianchi sugli autobus. Diventa il presidente più anziano mai eletto negli Stati Uniti: prima di lui Trump (che nel 2016 entrò nella Casa Bianca a 70 anni) che a sua volta aveva superato l’ex attore Ronald Reagan (vincitore a 69 anni). “Il mio messaggio ai leader stranieri è solo uno: l’America sta tornando” ha detto Joe Biden dopo i primi colloqui telefonici con i grandi leader europei, dal francese Emmanuel Macron alla tedesca Angela Merkel e al britannico Boris Johnson. Una dichiarazione che suggerisce una volontà che non è certo di basso profilo. L’altra percezione sbagliata, guardando dall’Europa, è identificare Biden in un uomo di sinistra, per quanto sbiadita possa essere questa immagine negli Stati Uniti (e peraltro in crisi in quasi tutto l’Occidente). La differenza tra democratici e repubblicani è un confine sottile. E Trump è stato finanziatore del partito democratico, prima di diventare repubblicano e tentare con questo partito la scalata alla Casa Bianca. Non che non ci sia una sinistra nel partito democratico. Viene identificata come una “sinistra radicale”, espressione anche questa fuori fuoco rispetto al nostro abituale linguaggio politico. Però c’è una presenza ambientalista, che fa riferimento a Bernie Sanders, candidato di minoranza tra i democratici con un seguito convinto. Questa minoranza nel partito ha fatto pesare il suo sostegno a Biden convincendolo a un programma “verde” che sarà uno dei punti di discontinuità con Trump. Perché la forza di un Presidente è data dalla statura del personaggio, dalla caratura dei suoi collaboratori, ma anche dalla composizione del suo consenso. E Biden, che per sua predisposizione è un negoziatore, ha deciso di indirizzare alcune sue scelte sulla necessità di comprendere le ragioni anche della sinistra moderata e delusa. Ha bisogno di un consenso senza smagliature, Biden, considerando che Trump, benché sconfitto, ha avuto sette milioni di voti in più rispetto al 2016, quando è stato eletto Presidente. E la consapevolezza di aver avuto un avversario molto rappresentativo ha fatto esprimere al neo eletto, nel momento della vittoria, la volontà e la necessità di ricostruire l’unità nazionale.

Recuperando quanto promesso nel programma elettorale, sarà proprio l’impegno ambientalista del programma di Biden uno dei primi motivi di avvicinamento all’Unione europea, a cominciare dalla salvaguardia del clima con la riduzione progressiva delle emissioni nocive. Un passo facile, perché gli accordi di Parigi sul clima, per essere ripristinati non necessitano di un passaggio parlamentare e il presidente potrà decidere in autonomia. Ma tutto il rapporto con l’Europa sarà ridisegnato, anche per una radicale diversa visione di Biden rispetto a Trump. Quest’ultimo infatti guardava all’Unione europea come a una potenza rivale, e per questo ne accarezzava le divisioni e le crisi. A cominciare dall’apprezzamento per la Brexit, cioè l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione (nei fatti, ancora in corso) che veniva letta da Trump come un indebolimento della Ue ma allo stesso tempo come un rafforzamento dell’area di influenza di Washington, facilitata anche dalla lingua comune, l’inglese. Ora per Boris Johnson l’asse preferenziale con gli Stati Uniti (che poi, a livello pratico, doveva dimostrare ancora quali vantaggi avrebbe comportato) si sta vanificando. Biden ha origini irlandesi, e l’Irlanda è la grande sacrificata dalla tanto minacciata Brexit senza accordo con la Ue che Johnson continua a evocare, riaprendo ferite tra Dublino e Belfast che sembravano suturate dagli accordi di pace di ventidue anni fa. Biden, in questo, è chiaramente al fianco dell’Unione europea, anche se poi i tempi non aiutano il suo ruolo di negoziatore: a fine anno lui non sarà ancora insediato, mentre Londra deve fare una sua scelta adesso. Biden poi, a differenza di Trump che voleva dividere, vorrà riaprire con Bruxelles un dialogo tra alleati, non tra una potenza (gli Stati Uniti) e una realtà frammentata (i 27 Paesi dell’Unione europea). Senza che l’Unione europea si faccia troppe illusioni, e su questo l’Alto rappresentante per la Politica estera nella Commissione Ue, lo spagnolo Josep Borrell ha le idee chiare: non si tornerà a un rapporto come quello che è stato nel dopoguerra, con una geopolitica ora lontana anni luce dall’attuale. L’Europa dovrà farsi una ragione che gli Stati Uniti guardino all’Asia e alla sua potenza economica come sfera geografica d’interesse.

La partita è sulla rotta del Pacifico, non dell’Atlantico. Ma un’alleanza strategica è possibile. Sulla traccia di quanto indicato già dagli otto anni di Barack Obama presidente (con Joe Biden vice). Non ci si aspetta soltanto che verranno ripristinati gli accordi sul clima di Parigi, ma anche che verrà recuperato l’accordo sul nucleare con l’Iran (Biden lo ha già annunciato), e questo avrà ripercussione sugli equilibri complessivi con riflessi inevitabilmente anche per l’Europa. Anche se con Teheran è probabile che gli accordi siglati da Obama, e poi sconfessati da Trump, vengano aggiornati, e questo eviterà di dare un’immagine schizofrenica della credibilità americana. Ma la strada è appunto di un recupero, che avrà riflessi diretti per i principali Paesi dell’Unione, e non solo dal punto di vista commerciale. Sui rapporti con le altre potenze Biden di certo non si riavvicinerà a Mosca, anzi saranno superate le ambiguità di Trump. Il presidente russo Vladimir Putin è visto dal neopresidente degli Stati Uniti come un manovratore nell’ombra, sempre all’opera contro l’America. Anche il grande “nemico”, come competitor mondiale in economia e nelle tecnologie, per Biden sarà lo stesso del suo predecessore: la Cina. Qui, come con Trump, sarà guerra commerciale, magari rivestita da motivazioni strumentalmente umanitarie (e cioè i dazi per il mancato rispetto di diritti minimi dei lavoratori), quando i bassi costi della mano d’opera cinese hanno fatto la fortuna di quasi tutte le multinazionali dell’Occidente, a cominciare dai giganti della tecnologia.

Trump, brutalmente, ha indicato come la rivalità con la Cina sia uno scenario necessario per mantenere la leadership mondiale degli Stati Uniti, o almeno per rimandare l’ineluttabile sorpasso come prima economia mondiale. I risultati ottenuti però dai suoi quattro anni da presidente sono quantomeno discutibili. La declamata guerra dei dazi con Pechino non ha portato a risultati visibili: il deficit delle importazioni/esportazioni tra i due Paesi costa agli Usa quasi 350 miliardi di dollari l’anno, più o meno lo stesso disavanzo di prima. Biden è certo intenzionato a giocare una partita comune con l’Europa nei confronti di Pechino, ma porrà alcune condizioni che potrebbero essere scomode, soprattutto per Roma che cerca l’amicizia di tutti senza fare una precisa scelta di campo come il nuovo presidente potrebbe pretendere. Con l’Italia la storica amicizia è appannata nella contingenza ma recuperabile. Il premier Giuseppe Conte, che giustamente non si è sbilanciato durante la corsa alla presidenza, aveva incassato un buon rapporto con Trump ma – anche se qualche osservatore in Italia, come il quotidiano La Repubblica, sta sostenendo il contrario – non tale da compromettere quelli futuri, ora che l’inquilino della Casa Bianca sta cambiando. Il ritardo di Palazzo Chigi nel complimentarsi con il nuovo Presidente è stato commentato dallo stesso Conte osservando che la solidità di un legame diplomatico non si misura nella rapidità delle congratulazioni. Peraltro la lentezza nella proclamazione dei risultati americani è stata imbarazzante, e questo ha giustificato qualche tentennamento. Se l’Europa unita saprà gestire insieme i suoi rapporti con la Cina sarà più facile per l’Italia non inimicarsi Pechino mantenendo un rapporto preferenziale con Washington. E più che Roma potrebbe avere qualche problema Berlino, dove pure la Cancelliera Angela Merkel ha certo molto apprezzato, dato il suo non felice rapporto con Trump, l’esito del voto negli Usa. Biden non potrà che esprimere la sua contrarietà al gasdotto russo-tedesco nel mar Baltico. Ma frenerà, o almeno ridimensionerà, il piano di parziale ritiro di forze americane nella Nato dalla Germania che Trump aveva deciso, in contrasto con Berlino.

L’Europa trova quindi un presidente che non avversa l’Unione, che è atlantista (e i rapporti con la Nato andranno ridefiniti, anche e soprattutto per il ruolo della Turchia nel Mediterraneo, decisamente troppo scomodo per l’Unione per la politica aggressiva del presidente Erdogan), ma che con troppo entusiasmo viene visto da alcuni osservatori come un amico. I grandi sostenitori di Biden nella campagna elettorale sono quei giganti del web che in Europa pagano tasse ridicole, e che sono giustamente visti da Bruxelles come un pericolo non solo alla sicurezza ma all’equilibrio dei mercati. La Ue sta per approvare misure di contenimento contro gli oligopoli del web, e questo inevitabilmente sarà un tema di frizione con Washington. C’è poi la partita dei dazi: in risposta a Trump, la Ue aveva approvato una lista di prodotti americani da tassare, ma ora la partita torna in gioco. Probabile che Biden voglia rivedere la stretta di Trump anche perché per lui le priorità sono altre e rimuovere i dazi è un modo facile di rilanciare il rapporto con l’Europa, dove conviene fare fronte comune su temi più d’attualità, come il contrasto alla pandemia. In questo la bussola di Biden dovrebbe essere la cooperazione. E quindi viene dato per scontato il rientro degli Stati Uniti nell’Organizzazione mondiale della Sanità, dopo la clamorosa uscita voluta da Trump. Naturalmente, i temi di politica interna saranno predominanti in questo lento avvicinamento di Biden alla Casa Bianca: l’insediamento è previsto per il 20 gennaio 2021, che seguirà di qualche settimana la convocazione del Congresso (Camera dei rappresentanti e Senato) con il voto congiunto dei cosiddetti “grandi elettori” che eleggeranno formalmente il Presidente. È già il conteggio delle forze in campo – più grandi elettori democratici che repubblicani – che consente a Biden di considerarsi vincitore. Nell’agenda del successore di Trump, considerando la drammaticità dell’impegno economico che tutti i Paesi affrontano come conseguenza della pandemia e delle misure per contenerle, le priorità saranno necessariamente le esigenze di politica interna. Bruxelles potrebbe muoversi in anticipo, proponendo una traccia di accordo agli Stati Uniti, a cominciare da un’intesa commerciale che azzeri le tensioni della conflittuale politica sui dazi. E sarebbe un segnale: un’Unione europea che per muoversi non aspetti le decisioni della Casa Bianca, ma le suggerisca e anticipi. Non solo in campo commerciale, ma intanto in campo commerciale.

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