di Fabio Morabito
Il veto di Ungheria e Polonia al piano di bilancio europeo era quanto di più prevedibile ci potesse essere. Il piano comprende le misure economiche concordate dai capi di Stato e di governo, e integrate dall’Europarlamento per contrastare la crisi conseguenza della pandemia, quindi anche i Recovery Fund. Si tratta di misure straordinarie messe a punto proprio per una risposta la più rapida possibile alle necessità della crisi. E invece la procedura – che deve passare dall’Europarlamento e poi dai parlamenti nazionali – si sta inceppando in continuazione. Il veto di Polonia e Ungheria era prevedibile perché c’è un punto dell’intesa, introdotta durante il confronto con il Parlamento europeo, a cui si vincola la concessione dei fondi. Un punto in cui si chiede che i beneficiari rispettino i “principi dello Stato di diritto”. Così detto è un’ovvietà: chi sta nell’Unione deve rispettare i principi dello Stato di diritto. Ma introdurlo in un’intesa economica, che dovrebbe sottostare solo a condizioni economiche, dà un potere di veto anche arbitrario agli altri Paesi dell’Unione E siccome Varsavia e Budapest stanno affrontando un contenzioso con Bruxelles per alcune loro leggi considerate illiberali, il loro “no” era da mettere subito in conto. Il presidente dell’Europarlamento David Sassoli aveva lodato l’intesa raggiunta, dopo che erano state accolte alcune richieste integrative di bilancio, proprio per il suo carattere innovativo nel porre dei paletti sull’erogazione dei fondi al rispetto dei principi dello Stato di diritto, e cioè indipendenza della magistratura, equilibrio tra i poteri, pluralismo e libertà nei mezzi d’informazione, l’equità nel punire le violazioni di legge. I rafforzativi proposti dall’Assemblea sullo Stato di diritto diventano però un vincolo non realistico. Un vincolo estraneo alle necessità economiche dell’intesa raggiunta, inconsistente nell’Europa dei veti, dove anche il piccolo Lussemburgo può bloccare quello che decidono gli altri 26 Stati membri. Si troverà la soluzione. Il 10 dicembre il Consiglio europeo affronterà la questione.
La Presidenza di turno all’Unione europea è quella tedesca, e quindi è nelle mani di Angela Merkel, la personalità politica di maggior levatura in Europa e forse nel mondo. Ma la soluzione è attesa dopo altre trattative, compromessi, tempi che si dilatano, ritardi irragionevoli. E se anche Varsavia e Budapest si dovessero piegare senza nessuna concessione, perché anche alla loro economia i soldi del Recovery Fund sono drammaticamente necessari, il meccanismo ideato su un’Europa diversa da quella di oggi mostra tutta la sua ruggine. La responsabilità poi di questo blocco è solo in seconda battuta dei due governi guidati dall’ungherese Viktor Orban e dal polacco Mateusz Morawiecki. A monte, quando sono state stabilite le condizioni del Recovery Fund, a rendere più spigolosa la trattativa sono stati i cosiddetti Paesi “frugali” chiamati così perché, non avendo problemi di bilancio, chiedono austerità nei bilanci.
Sono i Paesi Bassi, l’Austria, la Danimarca e la Svezia. I “frugali” contestavano l’impianto di interventi perché giudicato troppo benevolo con Paesi, come l’Italia, zavorrati da un esagerato debito pubblico. Una prima intesa è stata trovata sulla base di sconti (“rebate”) concessi a questi stessi Stati recalcitranti sui contributi che devono pagare ogni anno all’Unione europea. A dimostrazione che ciascuno fa solo il suo interesse. Poi il dossier è passato alla valutazione del Parlamento europeo, e al suo gruppo di “negoziatori” che si sono confrontati con Charles Michel, il politico belga, già premier del suo Paese, che presiede e coordina il Consiglio europeo.
Nel negoziato che ha portato all’intesa tra Consiglio europeo e Parlamento, i Paesi Bassi hanno di nuovo alzato la voce chiedendo vincoli più attuali di quanto già mediato da Angela Merkel, che aveva sì ammesso il principio del rispetto dello Stato di diritto, ma facendo riferimento a violazioni “già conclamate”. Il successivo accordo raggiunto, che prevede che sul rispetto dello Stato di diritto ci sia una valutazione affidata alla maggioranza dei due terzi (e non l’unanimità, escluso ovviamente il Paese interessato) è stato presentato dai negoziatori dell’Europarlamento con enfasi: “Il nuovo meccanismo di condizionalità – è la loro conclusione – consentirà di tutelare maggiormente il bilancio dell’Unione europea da violazioni dei principi dello Stato di diritto che conducono a un uso improprio dei fondi della Ue”.
Il fatto è che – a questo cambio di impostazione – Ungheria e Polonia non ci stanno, a costo di infilarsi in un vicolo cieco che sta nuocendo anche a loro e che produce un ulteriore ritardo nella concessione dei benefici. L’Italia – come consistenza dei fondi – è la prima beneficiaria dei fondi d’emergenza per la pandemia davanti alla Spagna, ma la Polonia è la terza. Non solo: in proporzione alla popolazione (e quindi anche ai contributi pagati alla Ue), i due Paesi del veto sono ben più favoriti dell’Italia nella distribuzione di fondi e prestiti.
Budapest e Varsavia hanno trovato un alleato nel primo ministro della Slovenia, Janez Jansa, che però non ha posto il veto una lettera di sostegno alle ragioni di Ungheria e Polonia. La Slovenia è legata da forti interessi economici con Budapest. Non sono invece della partita gli altri due Paesi che, con Budapest e Varsavia, hanno sottoscritto il patto di Visegrad (Repubblica Ceca e Slovacchia) e che compongono insieme una sorta di “sottogruppo” nell’Unione, cementato recentemente da interessi comuni come quello di non accogliere i migranti. Questo benché il Patto sia nato quasi trent’anni fa non come blocco di resistenza a Bruxelles, ma al contrario come punto di raccordo verso l’Unione dei nuovi membri dell’Est. Praga e Bratislava ora proseguono per conto loro. Non hanno contenziosi aperti sullo Stato di diritto. Questo quadro nuoce all’immagine dell’Europa prima di tutto di fronte ai suoi cittadini, dopo la retorica che ha glorificato la solidarietà condivisa con gli accordi sui Recovery Fund. Il Parlamento europeo, che ha dato più volte prova di voler difendere gli ideali fondanti dell’Unione, ha già annunciato di non voler fare passi indietro: “Gli accordi raggiunti sia sul quadro finanziario pluriennale che sullo stato di diritto sono chiusi. E non possono essere riaperti” ha avvertito la Conferenza dei presidenti del Parlamento europeo.
Ma la volontà di superare o meno la crisi, e come, è condizionata da interessi nazionali che si intrecciano. La Germania ha sempre dimostrato un atteggiamento benevolo verso l’Ungheria dove è di gran lunga la prima investitrice, e dove si fabbricano automobili tedesche con il più basso costo del lavoro in Europa. Con il beneficio aggiuntivo di una generosa politica di sgravi fiscali. La recente legge sul lavoro straordinario – 400 ore l’anno in più che possono essere imposte agli operai metalmeccanici in Ungheria – è chiamata indifferentemente “legge schiavitù” o “legge Audi”. E poi Budapest acquista prodotti tedeschi, a cominciare dalle armi. Quindi Viktor Orban si concede alcune libertà, togliendone altre (o comprimendole) ai suoi concittadini. E l’espulsione del suo partito Fidesz dalla famiglia dei Popolari in Europa è periodicamente minacciata. Ma solo minacciata. Del resto i voti dei deputati di Orban contribuiscono perché il Partito popolare sia il primo gruppo nel Parlamento europeo. L’argomento che con forza viene sostenuto contro il “muro” alzato da Budapest e Varsavia è che non si può essere europei quando si tratta di avere dei benefici (dal mercato comune alla mobilità dei lavoratori fino ai fondi elargiti) e chiamarsi fuori quando si tratta di condividere i valori fondanti dell’Unione. In questi giorni, è stato ricordato sui giornali come la Comunità europea sia nata grazie all’avvento della democrazia in Germania e Italia, che si sono alleate con la Francia e i tre Paesi del Benelux (Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo). La democrazia è stato il passaporto per entrare nel gruppo del mercato unico. Così come lo è stato nel 1981 per la Grecia, una volta uscita dalla cosiddetta dittatura de colonnelli. Nel 1986 è toccato a Spagna e Portogallo, anche loro reduci da lunghe dittature. Anche per i Paesi dell’Europa dell’Est, e siamo già nel ventunesimo secolo, è stato lo scioglimento dei regimi comunisti il passaggio necessario, anche se in questo caso il quadro è più complesso e ha avuto gioco la volontà di affrancare, anche economicamente, queste realtà dall’orbita della Russia post-Unione sovietica.
Polonia e Ungheria guidano la classifica dei Paesi con “saldo positivo” nel bilancio dell’Unione europea, già prima del nuovo piano ora bloccato proprio da loro. Questo giustifica l’insofferenza di altri Paesi, e Paesi Bassi e Francia sono arrivati a proporre una soluzione di rottura: realizzare un fondo intergovernativo tra tutti gli altri 25 Paesi dell’Unione, escludendo quindi Varsavia e Budapest. Un veto chiama l’altro, e ora è il premier dei Paesi Bassi, Mark Rutte, a dire che se viene fatta marcia indietro sulla “condizionalità” legata allo Stato di diritto, sarà lui a votare contro. Nella ricerca di una via d’uscita si è anche ipotizzato un benevolo semaforo verde per le procedure già in atto riguardo Varsavia e Budapest, che potrebbe essere il pegno per far cadere il veto. Un altro approccio lo ha suggerito il senatore a vita Mario Monti: i Paesi che, su proposta della Commissione, venissero sanzionati dal Consiglio europeo per violazione dello Stato di diritto dovrebbero poter portare la questione davanti alla Corte di giustizia.
Chi difende il veto di Orban e Morawiecki sostiene che la discrezionalità affidata al nuovo accordo sia una violazione della sovranità nazionale. Singolare che per il rispetto di principi come l’indipendenza della magistratura, la capacità sanzionatoria sia affidata da Bruxelles a un soggetto politico, sia pure collettivo, e non a un giudice indipendente. Il richiamo a requisiti oggettivi è il minimo che dovrebbe proporre Bruxelles per essere credibile. Il fatto è che l’Unione ha già stabilito nei Trattati come procedere per richiamare o sanzionare gli Stati che si allontanano da quelli che dovrebbero essere i valori comuni. Ci si chiede quindi: è necessario duplicare nell’accordo per i fondi destinati a gestire l’emergenza sanitaria e le sue conseguenze ciò che è già stabilito altrove?
C’è un’evidente ingenuità politica in chi, pensando di difendere dei principi sacrosanti, ha ritenuto di poter forzare la mano verso i due Paesi considerati “fuori regola”. Provando a imporre un principio che sembra riguardare solo Polonia o Ungheria, ma che riguarda anche altri, compresa l’Italia. A fine settembre – infatti – la Commissione europea ha presentato il suo primo rapporto sullo stato di diritto negli Stati membri dell’Unione. E Roma, che pure è stata lodata per la lotta alla corruzione, è stata rimproverata per la lunghezza estenuante dei processi. Con la prescrizione che interviene molto spesso vanificando possibili sentenze di condanna.
Eppure la certezza della pena è uno dei principi dello Stato di diritto. E che dire della Francia, tra i Paesi più convinti nel mettere alle corde Ungheria e Polonia? Proprio di questi tempi il governo francese ha messo a punto una legge sulla sicurezza giudicata da più parti illiberale, e che vorrebbe punire con un anno di reclusione chi riprende in video “con intenzioni malevole” i poliziotti in azione. La legge si è fermata dopo il clamore di un pestaggio, nel quale agenti di polizia hanno colpito con pugni e colpi di manganello un produttore musicale di origine africane, Michel Zecler, che stava rientrando in ufficio perché – racconta – si era accorto di aver dimenticato di indossare la mascherina anti-covid. Una ripresa video ha permesso di individuare e arrestare i quattro agenti che avevano aggredito il produttore, il quale peraltro sostiene di essere stato apostrofato come “sporco negro”. Lo Stato di diritto non può essere un principio che vale solo per gli altri, e anche le democrazie più mature hanno qualcosa da imparare.