di Monica Frida
Nell’impegno alla Farnesina di Luigi Di Maio, già capo politico dei Cinque Stelle, vicepremier e ministro del Lavoro nel primo governo Conte, ora agli Esteri nel secondo governo Conte, parte importante hanno i rapporti con la Libia. E su questa agenda Di Maio si è speso. Con quali risultati? L’Italia, per convinzione diffusa, ora ha un ruolo marginale dopo decenni di rapporti privilegiati. Le responsabilità però non solo solo di questi mesi ma degli ultimi anni, a cominciare dalla sciagurata scelta belligerante quando la Francia – era presidente Nicolas Sarkozy – decise di bombardare la Libia di Muammar Gheddafi, che fu deposto e rimase ucciso. Da allora sono passati nove anni. C’è lo spiraglio di una pacificazione e un progressivo percorso per ricostruire l’unità del Paese. L’Unione europea ha appoggiato la nomina – da parte delle Nazioni Unite – di un apprezzato diplomatico bulgaro, l’ex ministro degli Esteri a Sofia Nikolaj Mladenov. Per cinque anni è stato impegnato nel ricucire i rapporti tra israeliani e palestinesi, con buoni esiti: in questi anni l’ambasciata degli Stati Uniti presso Israele si è trasferita da Tel Aviv a Gerusalemme, e questa decisione di Donald Trump – che poteva essere considerata una provocazione – non ha avuto gli effetti destabilizzanti che si temeva potesse avere.
Se l’Italia fatica a trovarsi un ruolo, nonostante alcuni sforzi apprezzabili – è l’unico Paese europeo ad aver tenuto l’ambasciata aperta a Tripoli, anche negli anni più difficili – dipende da alcune scelte fatte ma anche da una progressiva perdita d’autorevolezza diplomatica. Con Di Maio alla Farnesina i segnali sono in questo senso involutivo. Ne è conferma, pur nelle sue complesse implicazioni, la vicenda dei 18 pescatori (otto italiani, gli altri per lo più tunisini o filippini) provenienti da Mazara del Vallo, in Sicilia, e arrestati dalle milizie libiche il primo settembre scorso. Oltre cento giorni fa.
A catturarli sono state le milizie controllate dal generale Khalifa Haftar, con un potere riconosciuto nella regione della Cirenaica. I pescatori sono accusati – si presume – di sconfinamento nelle acque territoriali libiche. Ipotesi confermata da Khaled Al-Mahjoub, alto funzionario locale, che ha garantito che i prigionieri sarebbero stati sottoposti a regolare processo. Khalifa Haftar è il militare che ha tentato invano di rovesciare il governo di Tripoli riconosciuto dall’Onu. Di Maio aveva impostato la linea politica della Farnesina sulla difficile questione libica cercando di accreditare l’Italia come mediatrice tra le due parti in guerra e ottenendo le blandizie di Haftar, che si prodigò in complimenti per il giovane politico italiano. Ma ora che il governo ufficiale, oltre al riconoscimento internazionale, ha respinto Haftar, il posto di primo partner internazionale della Libia, per decenni appannaggio dell’Italia, adesso è occupato dalla Turchia.
Lo smacco italiano è completo, e di questa vicenda dei pescatori trattenuti in Libia si parla poco o niente sui giornali. Ha avuto buon gioco Matteo Renzi, leader di Italia viva, parlando al Senato il 9 dicembre scorso, a biasimare come la vicenda sia stata condotta dal governo. Renzi ha ricordato un episodio simile (ma non uguale, e diverso nelle circostanze) avvenuto quando lui era a capo del governo, il 17 aprile 2015: un peschereccio di Mazara del Vallo era stato assalito dai libici, nelle cui mani però rimase poche ore. Vero è che allora intervenne immediatamente la Marina militare italiana, ma il confronto è stridente e effettivamente suggerisce la irrilevanza del prestigio internazionale dell’Italia al di là del Mediterraneo. Ci sono stati negli ultimi anni altri casi di “sconfinamento” (vero o presunto) nelle acque territoriali libiche, e tutti risolti immediatamente. Stavolta, invece, tutto appare più complicato.
In una dichiarazione a conclusione dell’ultimo vertice, il Consiglio europeo ha rivolto un blando appello: “Le autorità libiche rilascino i pescatori italiani trattenuti da settembre senza che sia stata avviata alcuna procedura legale”. Molto poco, ma almeno una cortesia a Roma in difficoltà. “Non accettiamo ricatti: i nostri pescatori devono tornare in Italia” dice Di Maio che, riferendo in Senato sul caso già un paio di mesi fa ha definito “comportamenti inaccettabili”. Nel sito della Farnesina non si trovano più le foto di Di Maio con Haftar. Quale sarebbe il ricatto? Haftar chiederebbe uno scambio di prigionieri per far rientrare in patria quelli che in Libia sono definiti “quattro calciatori” detenuti in Italia. In realtà, i quattro giovani saranno pure promesse del calcio, ma sono scafisti condannati a 30 anni per procurata strage in mare, responsabili della morte di 48 migranti.
Pescare nelle acque territoriali di un altro Paese è un reato, anche se Roma sostiene che lo sconfinamento non ci sarebbe stato. Il fatto è che Haftar ha confermato l’estensione delle acque territoriali che aveva già imposto unilateralmente Gheddafi, estendendole da 12 a 74 miglia nautiche dalla costa. Roma non ha mai acconsentito.
I due pescherecci – sostiene l’armatore italiano – sarebbero stati fermati a 40 miglia. Secondo la Convenzione sul diritto del mare, lo Stato costiero è tenuto a rilasciare subito navi e pescatori che si ritiene abbiano sconfinato, una volta ottenute le necessarie garanzie. E comunque la pesca illegale, anche se reato, non può essere punita con il carcere. Ma è una Convenzione che la Libia non ha mai sottoscritto. Il governo centrale, peraltro, non contesta la sovranità esercitata da Haftar in quell’area marittima. A dicembre sempre in. Cirenaica è stato lasciato libero dopo 5 giorni un cargo turco e il suo equipaggio. Era stato fermato per violazione delle acque territoriali, ma il presidente Recep Tayyip Erdogan ha minacciato esplicitamente una “ritorsione” e Haftar si è convinto subito. Ufficialmente, dopo il pagamento di una multa.