Dentro l’accordo. Cosa cambia con la Brexit

di Roberto Nigido

Dal 1° gennaio 2020 il Regno Unito non è più membro dall’Unione Europea, avendo chiesto di uscirne nel 2017; durante tutto l’ anno 2020 sono rimaste in vigore in Gran Bretagna le norme comunitarie al fine di assicurare una transizione ordinata verso un nuovo sistema di relazioni. Quest’ ultimo è regolato dal 1° gennaio 2021, per l’ essenziale, da un Accordo di Libero scambio e Cooperazione raggiunto dopo oltre tre anni di negoziati il 24 dicembre scorso.

L’ Accordo preserva la libera circolazione delle merci tra le due aree senza dazi e tariffe, come era nell’ interesse di entrambe le parti; ma, data l’uscita del Regno Unito dal mercato unico e dall’ unione doganale, introduce controlli alle frontiere. Al fine di assicurare condizioni di concorrenza accettabili per l’ Unione, l’ accordo impone alla Gran Bretagna il rispetto delle regole europee attualmente in vigore in materia sociale, ambientale, di aiuti di stato e di indicazioni geografiche; ma mette il Regno Unito al riparo dal dover accettare quelle che verranno introdotte in futuro da Bruxelles. Rinvia a ulteriori negoziati la libera circolazione dei servizi, inclusi quelli finanziari che sono di particolare interesse per il Regno Unito. In caso di violazione dell’ accordo denunciata da parte di uno dei contraenti, è previsto il ricorso a una procedura di arbitrato e, nei casi più critici, l’ adozione di misure di ritorsione. Avendo la Gran Bretagna rifiutato il ricorso alla Corte di Giustizia Europea, è facile prevedere che l’ applicazione dell’ accordo darà luogo a complicati negoziati e lunghi contenziosi. Sono tutelati i diritti acquisiti dai cittadini dei Paesi dell’ Unione residenti nel Regno Unito e quelli dei cittadini britannici residenti nei Paesi dell’ Unione: i non residenti al momento di Brexit saranno trattati come cittadini di Paesi terzi. L’ accordo sarà gestito da un Consiglio di Partenariato che si riunirà a vari livelli, incluso quello ministeriale; sarà composto da un rappresentante del Regno Unito e da uno della Commissione, integrati eventualmente da un rappresentante dello Stato o degli Stati Membri interessati.

La libera circolazione delle merci e delle persone tra Irlanda e Irlanda del Nord è stata essenziale nel 1998 per mettere fine a un sanguinoso conflitto interno che è durato trent’ anni. Al fine di preservare questa situazione, l’ accordo prevede che l’ Irlanda del Nord continuerà a fare parte del mercato unico. Per evitare distorsioni di traffico le merci in arrivo in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna saranno sottoposte a controlli doganali nei porti di arrivo. I prodotti ittici sono inclusi nella libera circolazione delle merci, a fronte del mantenimento per cinque anni e mezzo dei diritti di pesca dei battelli dei Paesi dell’ Unione nelle acque britanniche , con riduzione peraltro delle quote di pesca del 25% rispetto al passato: quote da rivedere ogni anno a partire dal 2026.

L’ accordo mantiene la cooperazione giudiziaria e di polizia e quella in materia di ricerca e tecnologia; esclude per volontà di Londra la politica estera e di difesa; ma fa salva la partecipazione britannica al Fondo Europeo di Difesa: buona notizia quest’ ultima per l’ Italia, dati gli importanti programmi di collaborazione bilaterale soprattutto nel settore aerospaziale. La Gran Bretagna ha deciso di non proseguire la sua partecipazione al Programma Erasmus, sia perché il flusso degli studenti tra i due lati della Manica non era equilibrato, sia e soprattutto perché era obiettivo dichiarato di Londra di evitare eccessive contaminazioni con l’ Europa continentale per andare verso aperture globali in tutti i campi: Johnson ha ritenuto che anche la cultura dovesse rientrare in questa logica. Il Primo Ministro britannico ha infatti subito annunciato la volontà di mettere in atto un programma nazionale di scambio di studenti rivolto a tutto il resto del mondo. Dublino da parte sua ha reagito con l’ impegno di finanziare il programma Erasmus per gli studenti dell’ Irlanda del Nord: altro elemento che ravvicinerà le due parti dell’ isola (e contribuirà ad allontanare l’ Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna).

Johnson ha centrato l’ obiettivo di recuperare la intera sovranità britannica in tutti i settori, con l’ eccezione di quanto previsto per l’ Irlanda del Nord. Londra non dovrà più accettare leggi fatte in futuro a Bruxelles e non a Westminster. E’ stata così confermata, seppur con ritardo, la previsione lasciata da Robert Schuman, il Padre dell’ Europa comunitaria, nel suo testamento politico (“Pour l’ Europe”, una raccolta di articoli e discorsi pubblicata nel 1963, anno della sua morte): “in nessun terreno un parlamento o un governo britannico accetterà leggi fatte fuori o contro di esso”. Pur essendo stato in gioventù sostenitore dell’ utilità dell’ adesione britannica al progetto europeo, alla luce dell’ esperienza ho dovuto convincermi che l’ uscita di Londra da quel progetto sarebbe stata prima o poi inevitabile: è avvenuta appena il Trattato di Lisbona ha introdotto nel 2009 la possibilità di recesso. Il rapporto con l’ Europa continentale era sempre stato conflittuale nell’ opinione pubblica inglese; e la firma del trattato di adesione fu accolta in Gran Bretagna con sentimenti contrastanti. Non posso dimenticare il gesto compiuto il 22 gennaio 1972 da un distino signore inglese il quale, confuso tra la folla ammessa al Palais d’Egmont, scagliò una boccetta di inchiostro contro Edward Heath al momento in cui il Premier britannico usciva dalla sala dove si era svolta la firma del trattato di adesione. Fu per me il primo segnale di una relazione problematica.

La decisione di chiedere di aderire alla Comunità Europea non avvenne a seguito di un generale e condiviso movimento di opinione, ma fu il frutto di calcoli dei vari governi britannici, conservatori e laburisti, succedutisi dal 1961 al 1969: calcoli che si sono successivamente rivelati sbagliati, visto che l’ obiettivo era quello di entrare in una zona di cooperazione limitata al libero scambio commerciale e dei servizi e di condizionarne gli sviluppi futuri. Londra non condivideva gli obiettivi di integrazione anche politica iscritti nella logica dei trattati che aveva deciso di firmare.

Dopo i primi anni di peraltro non generale soddisfazione per essere finalmente approdati a Bruxelles e aver salutato con favore l’ iniziativa della Commissione Delors di creare il mercato unico, gli inglesi si sono sentiti sempre più a disagio in una Europa che avanzava verso traguardi di maggiore integrazione a carattere sovranazionale, per di più in settori che oltrepassavano quello economico. Si sono resi conto che era stato ormai innescato un processo che andava contro i loro radicati sentimenti di indipendenza e orgoglio nazionale e oscurava la memoria dello splendido isolamento che aveva loro consentito di dominare a lungo ( e sfruttare ) buona parte del mondo. Anche se si è trattato di riflessi dovuti più alla nostalgia di un passato glorioso che a una razionale valutazione degli interessi in gioco, il richiamo a questi sentimenti e alla prospettiva di tornare a un ruolo mondiale ha contribuito alla vittoria del ”Sì” nel referendum del 2016, oltre ovviamente all’ insoddisfazione per gli inglesi di ritrovarsi coinvolti in un progetto del quale non condividevano gli obiettivi ultimi.

A partire dalla creazione del mercato unico nel 1987, Londra non è più riuscita a contrastare i progressi che ne erano la conseguenza: libera circolazione delle persone, moneta unica, piani per muovere verso l’ unione economica e in prospettiva anche verso quella politica. La Gran Bretagna si è dovuta rassegnare a rallentare e limitare il passo di questi progressi e a subirli, autoescludendosene. Peraltro sin dalla sua presenza nelle Istituzioni Europee Londra aveva lamentato gli eccessi della politica agricola comune e i relativi oneri di bilancio, ottenendone la riduzione; e nelle fasi di realizzazione del mercato unico ha sofferto come un incubo l’ insistenza, tipica del metodo comunitario, di regolamentarne ogni aspetto e di dirigerne da Bruxelles ogni passaggio. L’ accordo di libero scambio del Natale del 2020 riporta le lancette dell’ orologio indietro ai primi anni ‘60, quando la Gran Bretagna rifiutò l’ ipotesi di un accordo di associazione invece dell’ adesione piena: se accolto, quell’ invito avrebbe risparmiato agli europei residenti al di qua e al di là della Manica sessanta anni di mal di pancia.

Anche da questa parte della Manica la presenza britannica è stata vissuta con crescente insofferenza, obbligando la Comunità (poi Unione) e i suoi Paesi Membri a continue rinegoziazioni con il Regno Unito in occasione di ogni modifica dei Trattati, per accomodarvi la peculiare partecipazione di Londra, e ad accettare soluzioni al ribasso, dato il legittimo potere di veto inglese sulle questioni più rilevanti. Se la Gran Bretagna fosse stata ancora membro dell’ Unione nel luglio 2020, il coraggioso pacchetto del Recovery Fund e le innovative decisioni in materia di nuove risorse proprie ad esso collegate non avrebbero mai visto la luce.

Non credo si debba rimpiangere l’ assenza di Londra dalla politica estera e di difesa comune europea perché la Gran Bretagna non ha mai voluto contribuire seriamente al loro consolidamento e sviluppo: si è preoccupata unicamente di salvaguardare il proprio ruolo internazionale, del tutto in coerenza con la visione che ha della sua posizione e dei suoi interessi nel mondo. Né è da rimpiangere l’ assenza di un contrappeso britannico al ruolo dominante franco-tedesco, perché Londra ha badato solo ai propri specifici interessi in Europa e non agli equilibri politici generali tra i Paesi Membri, come era stato auspicato ingenuamente dall’ Italia (e dai Paesi Bassi) al momento dell’ adesione. Quel ruolo potrebbe essere svolto utilmente da Italia e Spagna, specie agendo congiuntamente, se l’ Italia sapesse stabilire assetti più solidi al suo interno e entrambi i Paesi riuscissero a conseguire maggiore peso internazionale grazie a un più consistente impegno sul piano militare. L’ Accordo di Natale apre la strada a una proficua cooperazione e prefigura positivi sviluppi futuri che, anche se faticosi, potranno essere soddisfacenti per tutti quali ne siano i costi, perché limitati alle aree di reciproco interesse e improntati al rispetto delle identità di ciascuno dei contraenti.

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