di Fabio Morabito
Nel mondo globalizzato nessuno s’illude più che quanto è successo a Washington il 6 gennaio scorso non riguardi anche l’Europa. L’assalto al Campidoglio dei manifestanti che sostengono Donald Trump, il Presidente degli Stati Uniti sconfitto al voto di novembre da Joe Biden, è una tragedia (per le cinque vittime degli scontri) ma soprattutto una farsa. E questo non per le immagini caricaturali che sono state riprese e affidate alla Storia: il “patriota” che si è accomodato – i piedi sulla scrivania – sulla poltrona della Speaker della Camera Nancy Pelosi, o l’italo-americano vestito da sciamano, il clima da gita, i “selfie” tra i manifestanti e gli agenti della sicurezza prima delle due ore di scontri, con deputati e senatori nascosti nei sotterranei dell’edificio.
Pagliacciate possono diventare prologhi di dittature, ma questo rischio non c’è stato a Washington, dove c’è invece stata la rappresentazione – plastica, evidente – che la leadership mondiale consegnata agli Stati Uniti è un errore che l’Europa non deve commettere mai più.
Si parla della “più antica democrazia del mondo”, come hanno ricordato alcuni commentatori, con un’enfasi che dimentica tutte le contraddizioni di una potenza considerata così liberale in patria ma così illiberale nelle scelte che riguardano il resto del pianeta. Con operazioni militari (la guerra in Iraq e le armi di distruzione di massa inventate per giustificarla) che se non ci fossero benevoli pregiudizi sarebbero considerate crimini contro l’umanità. Si parla di un fatto senza precedenti negli Stati Uniti (anzi, con un precedente così lontano da confermare l’eccezionalità di quanto è avvenuto: il 24 agosto del 1814, guerra anglo-americana, le Giubbe rosse diedero fuoco al palazzo del Parlamento). Un fatto reso possibile da una serie di concause. L’uso spregiudicato dei social, capaci di mobilitare nell’immediato (e qui c’è la responsabilità di Trump) ma anche la fragilità di un sistema democratico – quello statunitense – che non dà l’immediata proclamazione di un vincitore, ma prevede una transizione che può essere riempita di legittimi ricorsi come di evidenti manipolazioni e demagogici proclami. Quasi tre mesi trascorrono dal voto all’insediamento, previsto per il 20 gennaio. Trump era quindi Presidente a tutti gli effetti quando ha chiesto a suoi sostenitori di manifestare in Campidoglio, cercando di condizionare il voto dei delegati, voto che invece ha definitivamente sancito la vittoria di Biden.
Quanto poi è successo il 6 gennaio è un altro discorso. Poteva essere una strage, come si dice spesso, e questa volta con senso della realtà. Ma tutti i problemi dell’inefficienza della sicurezza sono – questi sì – problemi, per quanto enormi, di politica interna. La lezione per l’Europa è un’altra: non ci può essere più una dipendenza strategica dagli Stati Uniti, ma dovrebbe essere viceversa l’Unione a “dettare la linea” nella politica globale, in tutte le questioni che investono i conflitti, la democrazia e la sovranità dei popoli. Non è l’unico insegnamento di quello che non è stato un corto circuito ma l’evidenza di molte contraddizioni. C’è un altro insegnamento che l’Europa ha dimostrato di aver colto subito, anche se una soluzione è ancora lontana.
Ed è quello che non si può lasciare ai social il potere di decidere chi ha facoltà di parola e chi no. La reazione della decisione di Twitter di escludere Trump, che pure aveva usato il “cinguettio” per fomentare i suoi sostenitori, ha provocato l’indignazione di Francia e Germania. “La regolamentazione dei colossi del web – ha detto il ministro francese dell’Economia Bruno Le Maire – non può avvenire attraverso la stessa oligarchia digitale”. Con la consueta prudenza diplomatica, la Cancelliera tedesca Angela Merkel, tramite il suo portavoce ha subito definito “problematico” il blocco dell’account Twitter di Trump.
In Italia il dibattito è serrato, non solo tra chi sostiene che sia illecita o lecita (in quanto contratto privato) la decisione dei social di bloccare un profilo, ma anche con chi definisce perfino meritorio l’intervento di bloccare – per la gravità delle sue affermazioni e provocazioni – il presidente degli Stati Uniti. È chiaro che questo problema apra scenari drammatici: lo strapotere dei giganti del web, che non solo “controllano” ogni nostro movimento nella rete, ma addirittura possono spengere in qualsiasi momento la nostra libertà di espressione, sia pure sui social che sono dei servizi privati. Social pericolosi, anche perché amplificano per loro natura le divisioni, e quindi sono essi stessi strumenti possibili di violenza. Ma questi social non si possono disciplinare da soli. Ci vorrebbe almeno un’authority indipendente – in Germania qualcosa del genere c’è già – per frenare un potere che non riuscivamo ad immaginare così invasivo, e che ora è il manipolatore perfetto. Ci sono dei soggetti privati che offrono dei servizi gratuiti (i social network) il cui aumento del costo non è in soldi ma è una limitazione crescente di quella che chiamiamo “privacy”.
Nel frattempo c’è una nostra dipendenza dai social, dal loro sistema integrato che si scambia dati, e che ci propongono sottoscrizioni in cui accettiamo condizioni di cui siamo sempre meno consapevoli. Un passo per volta. È un modello comodo, ma non è un modello di libertà. È un modello economico che arricchisce un piccolo numero di soggetti privati, peraltro in modo così smisurato da impoverire contemporaneamente il resto del pianeta. Spetta all’Europa, dove in molti Paesi la democrazia è stata una conquista anche relativamente recente, dare una risposta di libertà. Che è qualcosa di diverso da una “libera” sottoscrizione della cessione della propria identità.