di Monica Frida
Si era fatto anche il nome di Antonio Tajani come nuovo ministro degli Esteri ma poi alla fine la conferma di Luigi Di Maio, Cinque Stelle, non ha sorpreso. Una conferma che non significa affatto che il nuovo premier Mario Draghi abbia apprezzato la linea della Farnesina di questo ultimo anno e mezzo. Una linea quantomeno opaca. Subito il nuovo premier ha indicato la rotta “europeista e atlantista”, e quindi senza le divagazioni filo russe o filo cinesi che hanno contraddistinto i due ultimi esecutivi. Il cambio alla Casa Bianca, con il nuovo Presidente Joe Biden, favorisce un’interlocuzione diversa, dove Bruxelles può finalmente provare a parlare con una voce sola. E allora perché confermare Di Maio? Draghi ha rivendicato l’autonomia dai partiti nella scelta dei ministri, ma ha anche fatto capire che non avrebbe voluto fare un governo senza il sostegno dei Cinque Stelle, che hanno il più numeroso gruppo parlamentare, conquistato nelle ormai lontane elezioni del 2018. E Di Maio anche se formalmente non è più il capo politico (c’è il senatore Vito Crimi “reggente”) è ancora il parlamentare più rappresentativo del Movimento fondato da Beppe Grillo. È possibile che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, politico di lunghissimo corso, ricordandosi del famoso “manuale Cencelli” sulla divisione degli incarichi, abbia suggerito a Draghi la conferma di Di Maio. Questo per blindare il sostegno dei Cinque stelle all’esecutivo. Tutto fa pensare che Draghi avocherà a sé le decisioni più importanti di politica estera ed europea, e questo sembra confermato anche dalla rinuncia al ministro degli Affari europei, depennato dall’esecutivo.
Ci sono tutti i presupposti di un cambio di linea, dove l’Italia potrebbe ambire a un ruolo certo più autorevole dello sbiadito recente passato. Molto dipende anche dalla durata del governo che il neopremier vuole certo accompagnare a fine legislatura senza farsi tentare dalla promessa di diventare l’anno prossimo il nuovo Presidente della Repubblica. Se ne è parlato tanto dando per certo che Draghi volesse approdare al Quirinale. L’ex presidente della Banca centrale europea sembra invece molto più coinvolto da questa occasione da Primo ministro, dove può esaltare le sue doti di politico vero e rendersi più concretamente utile al Paese. In linea teorica, il posto al Quirinale glielo potrebbe tenere Sergio Mattarella, se accettasse una “proroga” come il suo predecessore Giorgio Napolitano, e cioè un secondo mandato con le dimissioni già programmate. Ma Mattarella sembra che non ne voglia sapere.
Di Maio, dal canto suo, non farà fatica a rimodulare la sua linea sulla traccia indicata da Draghi, per altro molto semplice. Europa e Nato. Uno schema chiaro, che potrebbe restituire a Roma quell’affidabilità a cui guarda Washington. L’ultimo accordo di fine anno con la Cina, che ha firmato l’Unione europea, in realtà è stato negoziato dalla Germania e a ruota dalla Francia (Emmanuel Macron non sa rinunciare ad affiancare Angela Merkel, accreditandosi come il partner favorito di Berlino). Questo aiuta Roma a sintonizzarsi con Washington, nonostante Biden, nel suo primo discorso al Dipartimento di Stato abbia nominato gli otto Paesi migliori alleati, e l’Italia non c’era (Francia, Germania naturalmente sì, con la Gran Bretagna). C’è il tempo di ricucire i rapporti, e lo farà di persona Mario Draghi con la presidenza del G20 che quest’anno spetta all’Italia. Certo è che gli Stati Uniti useranno la carta della difesa dei Diritti umani per regolare i rapporti con Cina e Russia, e l’Italia deve essere in grado di affiancare Biden spendendo questa linea nell’Unione europea. Un riposizionamento che a Di Maio non costerà fatica, dopo le innumerevoli occasioni che lo hanno visto adattarsi alle continue nuove situazioni.