di Fabio Morabito
Nell’indicare quali sono e saranno le linee maestre della politica estera degli Stati Uniti, Joe Biden è stato molto chiaro. Il nuovo presidente americano ha indicato due avversari, Russia e Cina, che accomuna nella violazione dei di ritti umani, anche se poi le ragioni del dissidio sono altre: per lo più storiche con Mosca, di concorrenza nel dominio del mondo con Pechino. Biden ha anche fatto capire in tutti i modi che se pure rinsalderà legami con altri attori, come il Giappone, in funzione anti-Cina – l’alleanza del cuore è con l’Europa. Non solo con la Gran Bretagna, che ha lasciato l’Unione europea, ma con l’Unione stessa, come somma di protagonisti ma meglio ancora come soggetto unico.
Biden non vuole un’Unione divisa, come avrebbe preferito Trump. Non la vuole debole. Ma naturalmente vorrebbe anche capire se l’Unione europea saprà muoversi in blocco, oppure resterà una somma di politiche, necessità, visioni diverse. E come già aveva fatto Barack Obama all’inizio dei suoi due mandati alla Casa Bianca, ha partecipato a un Consiglio europeo, il 25 marzo scorso, sia pure in questo caso agevolato dalla modalità in videoconferenza. Confermando la sua amicizia (certo, interessata), e la volontà che Bruxelles affianchi Washing ton, ma fornendo una chiave di condivisione, che formalmente sono valori comuni e non un’adesione acritica alla potenza degli Stati Uniti. Cosa vorrebbe Biden dall’Europa quindi appare chiaro, ma le linee tra Stati Uniti e Unione non saranno parallele. In questo la posizione più resistente è quella della Germania, che pure sul fronte dell’appartenenza alla Nato è più convinta della Francia, unica potenza nucleare nell’Unione. Biden continua a reclamare da Berlino la rinuncia all’intesa con Mosca sul gasdotto North Stream. Questa è una partita persa.
Riguardo la Russia le differenze di sensibilità sono marcate. Non è una questioni solo di interessi economici ma anche culturale. Alcune contraddizioni della Germania verranno ancora più alla luce con l’inevitabile crisi politica del dopo-Angela Merkel.
Una stagione di incognite e che – almeno per quello che appare ora – sarà senza un leader altrettanto carismatico.
Il Paese riunificato è ancora diviso, anche nelle sue preferenze politiche, e gli estremismi attecchiscono nell’Est per vocazione storica, e questo succedeva anche prima del nazismo. Sul versante Cina la Germania è il Paese europeo più attento a mantenere buoni rapporti, perché vede in quel grande Paese non tanto l’esportatore formidabile ma un altrettanto formidabile mercato.
Sarebbe sbagliato però incagliarsi nelle differenze e non collaborare, condividere, difendere i valori comuni (quando sono veramente valori, e non pretesti). L’Europa, come l’America di Biden, dovrebbe essere in grado di indicare tracce precise.
Accettando la sfida del nuovo presidente degli Stati Uniti, che sarà strumentale ma è abile: la difesa dei diritti umani deve diventare una traccia unificante, e come si fa a dire che non sia un bene che lo sia? L’antiamericanismo in Europa è diffuso, e con buone ragioni: ma l’Europa può diventare finalmente voce della pace, non solo tra i suoi confini ma anche fuori. E dare la linea, non farsela dare.
Ci possono essere differenze su come difendere i diritti, ma ci vuole il coraggio di non rifugiarsi in deroghe.
Il problema vero rappresentato dalla Cina è la sua trascinante crescita economica, e quindi la sua invadenza dei mercati? Si contrasta non con una conflittuale politica di dazi, ma difendendo la dignità del lavoro, il giusto compenso, bloccando l’importazione di prodotti che sono frutto di sfruttamento.
Ci vuole una visione più ampia dove i diritti umani siano accolti nella loro accezione compiuta. Se l’Europa ne vuole farsi paladina, non deve nascondersi quando sono coinvolti i propri interessi economici o quelli delle multinazionali europee o americane.
La Cina ha quasi il monopolio del cobalto, ma questo minerale raro è utilizzato dalle batterie delle moderne e “ecologiche” auto elettriche, dei nostri telefonini o computer, e c’è una filiera del profitto dove la base è lo sfruttamento. I bambini utilizzati come schiavi nelle miniere di cobalto in Congo, senza precauzioni per la loro salute e con un’elevata mortalità, sono un problema di diritti umani. E devono essere un problema europeo.
È ora che l’Europa, che sta ritrovando – dopo la parentesi Trump – gli Stati Uniti al proprio fianco nella politica ambientale, sappia estendere la consapevolezza della tutela delle risorse naturali e quello dello sviluppo sostenibile a concrete politiche di cooperazione e di progresso.
Progresso condiviso anche con i Paesi che sono economicamente depressi.
L’agenda “verde” non può essere solo una rettifica dei consumi e un’evoluzione dei materiali. L’Europa che investe in Africa lo deve fare secondo parametri nobili, dove il benessere deve essere fertile, come fertile deve diventare il terreno impoverito di questo grande continente.
Sono state le multinazionali occidentali, non i cinesi, a vendere in Africa il grano sterile, perché quelle popolazioni povere fossero sempre costrette a comprare nuove sementi.
E oggi non basta regalare dosi di vaccino per mettere a posto la coscienza dell’Ovest del mondo.
Una delle conseguenze della pandemia è stata quella di aumentare la differenza tra la ricchezza dei grandi capitalisti e il resto del pianeta. Naturalmente non c’era bisogno della pandemia per accorgersi di un fenomeno che è già diventato esasperato negli anni. Ma che la pandemia l’abbia accentuato, significa soltanto come tutto stia contribuendo ad aumentare le disuguaglianze. La vendita di debito europeo per finanziare la ripresa economica di tutta l’Unione è, anche da questo punto di vista, la risposta più adeguata a far diventare progetto quella che è stato spesso proiezione astratta: la necessità di non lasciare nessuno indietro, l’interdipendenza di economie evolute ma in affanno, la consapevolezza di un destino comune. In questo quadro, con un’Europa soggetto unico e autorevole, l’alleanza con gli Stati Uniti potrà evitare di essere una sudditanza. L’Europa può farsi accompagnare nel primo tratto di percorso verso un’autonomia strategica, dalla difesa alla sicurezza informatica, che la rendi auto- noma dai monopoli della finanza e del web, per poi proporre e imporre una propria visione virtuosa.
La crisi oggettiva del ruolo della Germania dà delle chance – ma anche dei doveri – all’Italia guidata da Mario Draghi. Palazzo Chigi avrà nei prossimi mesi un ruolo sicuramente più forte in politica estera degli ultimi anni. Un ruolo di mediazione tra i diversi attori della politica europea con i nuovi protagonisti del Mediterraneo (come la Turchia) e di chiare scelte di campo nello scenario più ampio fuori dal Continente.
Si insiste molto, nei resoconti politici, sulla frequenza con cui il nostro premier si confronta con il presidente francese Emmanuel Macron. Insieme starebbero pensando a proporre a un allargamento di risorse per il piano di rilancio economico da 750 miliardi. L’asse franco-tedesco degli ultimi tempi era già altra cosa rispetto ai tempi di Adenauer e De Gaulle, e non è affatto detto che Draghi abbia in mente un asse a due. La soluzione è quella di più protagonisti coinvolti (cooptando la Spagna), di una guida europea che non sia più aggrappata alla Germania. Dalla quale non si può prescindere, ma non si può più dipendere.