di Stefano Gatto
Le relazioni tra Unione Europea e America Latina sono le grandi sconosciute in un ambito già di per sé generalmente sottovalutato, quello della dimensione estera dell’Unione Europea, pudicamente chiamata “azione esterna” per non infastidire, in sede di trattato, le suscettibilità di alcuni Stati membri dell’Unione (Gran Bretagna, ma non solo). La stessa terminologia SEAE – EEAS (Servizio d’Azione Esterna Comune), diretto da un Alto rappresentante / Vice Presidente, venne a certificare questo consenso obbligato, ma raggiunto con certo malincuore di alcuni.
Tradizionalmente, e prima del lancio del SEAE nel 2010, la dimensione estera dell’UE era gestita in modo inter-governativo (il secondo pilastro dell’Unione, associato alla dimensione del mercato unico – comunitaria e al terzo pilastro, quello giudiziario, anch’esso intergovernativo).
La dimensione comunitaria, però, aveva già generato, prima del Trattato di Lisbona, una sua dinamica estera, centrata sul commercio (a partire da una lettura ampia dell’art.133, che permise alla Commissione negoziare accordi commerciali con stati terzi) e sulla cooperazione allo sviluppo, intesa come complemento necessario a potenziali accordi commerciali coi paesi meno avanzati.
Nel caso dei paesi usciti dal processo di decolonizzazione (ACP, per Africa Caraibi Pacifico), s’inquadrarono i rapporti nelle Convenzione di Yaoundé, Lomé e ora Cotonou, che finalmente daranno luogo ad accordi di commercio intra – regionali compatibili con le regole dell’OMC, gli European Partnership Agreements (EPA), in parte già entrati in vigore.
Nel caso dell’America Latina, dell’Asia e del Mediterraneo, i rapporti si plasmarono a partire dagli anni ottanta, più tardi rispetto agli ACP, e seguirono in parte la stessa falsariga, che era ciò che la Commissione conosceva meglio: la coppia Commercio (DG TRADE) – Cooperazione (DG RELEX e DEVCO, per usare le terminologie più recenti).
Dopo la caduta del muro di Berlino, si aprirono nuovi orizzonti di Politica Estera comunitaria prima con i programmi di transizione all’ economia di mercato PHARE e TACIS, seguiti dall’allargamento ai paesi che furono beneficiari del primo e dalla politica di vicinato ai destinatari del secondo, estesa poi anche ai mediterranei.
In questo contesto, il braccio operativo della Commissione nel mondo erano le 136 Delegazioni, missioni diplomatiche della Commissione poi divenute rappresentanti dell’Unione a partire dal 2010 (Trattato di Lisbona) e che costituiscono una delle reti diplomatiche più estese al mondo, anche se risultano poco conosciute ai cittadini europei perché sin dall’inizio si volle che non esercitassero una dimensione consolare, quella che avvicina di più alla popolazione.
I rapporti con l’America Latina iniziarono a plasmarsi negli anni ottanta, in uno scenario che sorprenderà molti: l’America Centrale. Nel contesto delle guerre civili che insanguinarono la regione, e che risparmiarono la sola Costa Rica, la presenza politica della Comunità Europea e dei paesi europei ebbe un grande significato, perché fu funzionale alla soluzione negoziata di tali conflitti, facilitata da rappresentanti europei e al conseguente ritorno della democrazia in una regione martoriata da dittature e repressioni sanguinarie. Il ruolo di Francia, Svezia, Olanda, Belgio, della stessa Italia e della neo – arrivata Commissione, poi accompagnate da Spagna e Portogallo dopo il 1992, fu importante nell’offrire alla regione centroamericana una prospettiva democratica diversa da quella statunitense, che in quel contesto abbracciò senza esitazioni l’appoggio alle dittature in chiave anti – marxista. La presenza europea fece capire ai centroamericani che esisteva un altro modo di essere democrazie, facendo di elezioni, stato di diritto, rispetto dei diritti umani e opportunità economiche la chiave di volta del futuro per i paesi latinoamericani. In questo senso, nell’immaginario centroamericano “Europa” si associa a stato di diritto, diritti umani e politiche pubbliche, concetti su cui la cooperazione statunitense è stata a lungo assente, dato che gli Usa hanno nei confronti dell’America Latina e soprattutto centrale e caraibica un approccio di tipo geo-strategico: la stabilità è la loro prima preoccupazione. Quella europea l’appoggio a una democrazia inclusiva che permettesse lo sviluppo di comunità di valori condivisi tra Europa e Americhe.
L’azione europea fu discreta ma efficace, e diede luogo alla formazione del Dialogo di San José, piattaforma di dialogo democratico, che ebbe poi il suo equivalente nel Gruppo di Rio.
Questi due gruppi, centrati attorno ai concetti – chiave di democrazia, stato di diritto ed economia di mercato, costituiranno la piattaforma per i futuri vertici euro – latinoamericani (il primo a Rio de Janeiro nel 1999).
La Commissione Europea centrò la sua cooperazione negli anni novanta sul supporto ai paesi centroamericani usciti dai conflitti armati, il ritorno e l’ampliamento della sfera democratica, il reinserimento produttivo degli ex-combattenti, la ricostruzione delle strutture produttive.
Molte di queste esperienze si sono rivelate, su un periodo di due decenni, veri successi, e nessuno nega, in America Centrale, che l’istituzionalizzazione e la democrazia hanno avuto forti tinte europee. Anche se alcuni settori, i più conservatori, molto legati ai repubblicani americani, lo considerano un aspetto negativo (“los europeos y sus malditos derechos humanos”).
Di certo, se oggi in America Centrale si parla di promozione dei diritti umani è in buona parte dovuto alla cooperazione europea, dell’UE e di diversi paesi europei, con la Spagna ora in prima fila. Non certo a quella statunitense, come detto molto legata a interessi strategici statunitensi (controllo movimenti di popolazione e narcotraffico, queste le due chiavi della politica Usa, addirittura al di là degli interessi economico – commerciali). Ancor oggi, gli attivisti dei diritti umani sarebbero orfani e isolati senza il supporto europeo su molti temi.
La semina degli anni ottanta – novanta, spesso portata avanti da diplomatici europei molto intraprendenti e spesso molto coraggiosi (alcuni persero la vita in questo sforzo, vittima dei nemici della democrazia) portò poi all’Accordo d’Associazione tra l’UE e l’America Centrale, firmato nel 2013, il primo di questo tipo (politico, commerciale e di cooperazione) tra due regioni, ad accordi bilaterali con vari dei paesi del che fu il Patto Andino (Perú, Colombia, ed Ecuador), all’accordo in corso di ratifica con il Mercosur. Gli accordi con il Messico e con il Cile erano già degli anni novanta. L’UE è quindi in una relazione preferenziale con tutti i paesi latinoamericani, salvo Venezuela e Bolivia (esiste un accordo ad hoc anche con Cuba).
Come detto inizialmente, il forte rapporto tra Europa e America Latina rimane poco noto ai cittadini europei e persino diversi governi europei (pensiamo ai paesi centro – orientali) guardano solo marginalmente a questo subcontinente. Non è lo stesso per le aziende europee, molte delle quali presenti con investimenti significativi da decenni. Pochi sanno, ad esempio, che lo stock complessivo d’investimenti europei in America Latina supera quello dei loro investimenti combinati in Cina, India e Russia. Difficile davvero sostenere, come pure fanno alcuni amici della teoria dei cerchi concentrici, molto in voga ad esempio nei think tank e riviste italiane, che la relazione tra Europa e America Latina sia “poco rilevante o strategica”. Anche in termini economici non lo è, specie pensando all’enorme potenziale ancora inespresso degli accordi con Messico, Cile, Colombia e in futuro col Mercosur. Tutte le grandi aziende europee, specie latine, sono già presenti in America Latina e affrontano ostacoli molto minori di quelli che trovano begli emergenti asiatici. Nonché modelli di business e culture molto simili, che spiegano la penetrazione, ad esempio, delle imprese di servizi iberiche.
Se quindi il rapporto tra Europa ed America Latina è essenzialmente economico e di natura democratica / diritti umani, come reagire ai colpi che la democrazia rappresentativa sta soffrendo nella regione? Dopo tre decenni di consolidamento della democrazia e dello stato di diritto, la piaga della corruzione, la penetrazione di populismi conservatori fortemente marcati da impronte religiose estremiste di derivazione statunitense e il potere perturbatore del narcotraffico sembrano avere messo in scacco i progressi degli ultimi decenni. Un po’ ovunque si notano, senza che un solo colore politico ne faccia uso esclusivo, un uso strumentale dell’arma giudiziaria per eliminare avversari politici, il ritorno di linguaggi e comportamenti da “uomini forti”, la ridicolizzazione dei diritti umani, l’elogio dei dittatori del passato e, in diversi casi, accentuati passi indietro negli indicatori sociali a causa dell’indebolimento delle politiche pubbliche e della leva fiscale per l’offensiva neo – conservatrice incoraggiata dall’esempio di Trump, adorato da gran parte delle classi dirigenti latinoamericane.
Le recenti vicende della Bolivia, con l’arresto della presidentessa provvisoria Añez e vari ministri del suo governo provvisorio (2019 – 20) accusati di aver perpetrato un colpo di Stato, di sedizione e terrorismo dopo la sospensione del processo elettorale e le dimissioni di Evo Morales nel 2019, e d’altro canto di Lula in Brasile, i cui processi, che avevano spianato la strada all’elezione di Bolsonaro sono stati annullati perché viziati da molte irregolarità, sono due dimostrazioni di uso spietato della giustizia per fini politici portati avanti da posizioni opposte.
Se a questo ha contribuito il clima di radicalizzazione ideologica emerso a partire dall’elezione di Chávez in Venezuela nel 1999, che ha sostanzialmente diviso l’America Latina in due blocchi contrapposti, la poca solidità democratica nella regione evidenzia che il rafforzamento dello stato di diritto e l’approfondimento della democrazia rimangono cantieri aperti, anche se i cittadini latinoamericani, secondo il Latinobarometro, non credono più molto ad essa. E, le cittadinanze sono spesso vittime di un muro contro muro tra opposte intransigenze: quella di settori conservatori ringalluzziti dagli ultimi sviluppi e mai a loro agio con la “democrazia stracciona” e un universo progressista di stampo bolivariano – indigenista che non esita neanch’esso a perseguire il cambio sociale attraverso la concentrazione di poteri in élites rivoluzionarie.
Questi atteggiamenti furono che alimentarono i dolorosi conflitti armati degli anni sessanta e settanta, alimentati dal “miedo al comunismo” che accomunava Washington e le élites latinoamericane. Curioso e triste ritrovarsi coi linguaggi della guerra fredda cinquant’anni dopo, come se tre decenni di democrazia e crescita economica non fossero bastati a rendere tali atteggiamenti antidiluviani.