Ci sono, nella percezione collettiva, due Europe contrapposte nella stessa Unione dei 28. C’è l’Europa dei partiti tradizionali, delle forze politiche storiche, nella quale tre poli si sono accordati per sostenere la nuova Commissione guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen. L’Europa dei Popolari, dei Socialisti, dei Liberali. E, rispetto a questa, c’è l’Europa dei cosiddetti “sovranisti”, l’Europa delle identità culturali gridate ma non per questo necessariamente più concrete di altre, l’Europa della diffidenza e dei confini. L’Europa impaurita. Non è l’unica opposizione: ci sono anche i Verdi o l’estrema sinistra che però sono forze europeiste. E viceversa una parte importante dell’Europa sovranista, il partito ungherese Fidesz di Viktor Orban, si tiene al riparo nel Partito popolare. Quando ha rischiato l’espulsione, Orban non ha esitato a mettersi in riga. Ma lo scontro tra blocchi, che ha mosso la campagna elettorale alle ultime Europee, è stato il filo rosso del ragionamento che ha portato all’alleanza dei partiti tradizionali per la Commissione von der Leyen. I partiti storici temono i sovranisti, anche se in qualche modo li hanno messi all’angolo.
I due blocchi si contrappongono, con tutti i possibili pregiudizi che possono avere reciprocamente. Due Europe nella stessa Unione. Dove i sovranisti rifiutano le regole dell’Europa ma ne sfruttano con cinismo le opportunità. Un’inchiesta del New York Times di questi giorni sostiene che una parte importante dei 58 miliardi di euro che ogni anno Bruxelles spende in sussidi per l’agricoltura finisce in tasca a un gruppo di oligarchi dell’Europa orientale. Viktor Orban, il controverso Primo ministro ungherese, avrebbe venduto all’asta – secondo il quotidiano statunitense – migliaia di ettari di terreni statali, che si sono aggiudicati suoi parenti e sostenitori, poi beneficiari dei sussidi. L’Unione, da Budapest come da Praga, è denigrata e usata. Bruxelles delega i controlli all’autonomia dei governi nazionali, e sembra non curarsi troppo di dove finiscano i suoi soldi.
Poi c’è l’Europa dei cosiddetti “poteri forti”. L’euroburocrazia, l’Unione delle banche, la finanza, il grande capitale. La polemica che c’è in questi giorni in Italia sul Fondo Salva-Stati, e in particolare sulle condizioni che il primo ministro Giuseppe Conte avrebbe trattato quando era ancora alla guida del governo di coalizione tra Cinque Stelle e Lega, va ricondotta a questa Europa. A prescindere se nel Salva-Stati ci sia o no un pericolo reale per l’Italia, la diffidenza dei cittadini è una reazione comprensibile in questo scenario.
Quando Matteo Salvini, il leader della Lega, dice che il debito e il tracollo della Grecia ha finanziato le banche tedesche e francesi non racconta un luogo comune populista. Dice la verità. Se i titoli di Stato per finanziare un debito pubblico sono emessi da un Paese in crisi, gli interessi sono più alti. E questi interessi sono più alti perché c’è il rischio del fallimento dello Stato; ma le banche che prestano soldi non corrono rischi, perché sarà la Commissione europea, la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale (insieme chiamate “Troika”, parola che evoca un controllo brutale), a salvare il Paese al tracollo e a permettergli di continuare a pagare i debiti. Ma a prezzo della povertà.
Anche questa Europa dei cosiddetti poteri forti sul piano economico ha un’Europa contrapposta. Ed è l’Europa che nasce attorno al malessere dei ceti popolari e dei ceti medi resi sempre in questi anni sempre più poveri, più insofferenti; che perdono il lavoro, i diritti, anche i piccoli agi borghesi. Che temono per il futuro dei loro figli. Che guardano con diffidenza a Bruxelles, identificata con la burocrazia, con lo sfruttamento, con la finanza che divora i salari e il piccolo risparmio. Si è avverato ciò che Karl Marx aveva previsto scrivendo “Il Capitale”, e cioè che dopo l’Industria avrebbe comandato la Finanza. Quella che Marx aveva chiamato “eine neue Finanzaristokratie”, una nuova aristocrazia finanziaria. Parassiti. Che si sarebbero arricchiti senza produrre, senza costruire.
Uno sfruttamento che avrebbe tolto benessere a tutti per beneficiare pochi. Ed è quello che sta succedendo oggi, con i lavoratori che perdono sempre più diritti e valore reale dei salari. Un fenomeno che insieme alla crisi della politica tradizionale sta allargando il fronte del populismo anche nelle più solide democrazie. Nascono partiti per una sola stagione, movimenti dal destino incerto, che sono magari mossi da idealisti con buone ragioni ma cavalcati da speculatori di occasioni. E che sono una cosa – a volte – diversa dai sovranisti, ma che si nutrono dello stesso malessere. Che se non trova un soggetto credibile a interpretarlo, diventa reazione. In questa crisi generale, le nuove generazioni – che hanno avuto la fortuna di non conoscere la guerra neanche nei racconti dei loro padri – non hanno idea di quali siano gli ideali che hanno fatto nascere il progetto dell’Europa unita. E vedono l’Europa come un sistema economico e burocratico, che “chiede sacrifici” e crea problemi, che è imbelle quando deve esprimersi in politica estera, che è incapace di parlare con una voce sola ma è anzi divisa su tutto. Ci sono due Europe contrapposte. Ma ci potrebbe essere una terza Europa. Un’Europa che si pone al mondo non solo come unione di dogane e di interessi finanziari, ma come soggetto di progresso e di pace. Un’Europa che guarda a un futuro sostenibile, al rispetto dell’ambiente, all’industria “verde”, alla qualità della vita, alla difesa dei diritti, alla dignità del lavoro. Un’Europa che non sia la figura retorica che diventa cavallo di Troia di sterili interessi nazionali, ma che sappia parlare ai suoi cittadini e fuori dal continente con l’energia della sua civiltà. Che sappia essere esempio di pace e guida di sviluppo.
Non è vero che difendere la propria identità nazionale sia una forma di sovranismo, perché l’Unione europea vivrà solo rispettando le proprie differenze. Che è poi il modo migliore per rispettare, e accogliere, anche le differenze degli altri. Ma serve una volontà consapevole, condivisa, e non solo una dichiarazione di principi come potrebbe restare il discorso di Strasburgo di Ursula von der Leyen. Che ha toccato tutti i temi, ma sfiorandoli. Che ha posto obbiettivi importanti ma non ha fatto i conti con le sue contraddizioni. Che ha parlato di forza ma ha comunicato fragilità. Ursula von der Leyen può aver convinto o no con il suo discorso, il suo appello al lavoro comune può essere sembrato incisivo oppure velleitario. Ma anche riconoscendo alla neo-Presidente le migliori intenzioni, l’Europa cambierà passo solo se lo vorranno i governi nazionali. I capi di Stato, i primi ministri. Che dovranno recuperare il desiderio, l’orgoglio, la visione di chi ha fatto nascere questa Europa dalle macerie della guerra per un futuro di pace. Fabio Morabito