di Antonella Blanc
Ricucire. Recuperare il tempo perduto. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio lo riconosce: sulla questione libica l’Italia deve ritrovare un ruolo che ha perso nell’anno che si sta chiudendo. Per questo è andato in missione in Libia il 17 dicembre, ha incontrato il primo ministro del governo di Tripoli, Fayez al Serraj, e in Cirenaica il generale Khalifa Haftar, che sta guidando l’attacco militare contro la capitale. L’Italia è stato il primo Paese occidentale a riaprire l’Ambascata a Tripoli, nel 2017, dopo che le Nazioni Unite avevano riconosciuto il governo di Accordo nazionale di Serraj, con voto unanime del Consiglio di Sicurezza, del quale fa parte anche la Francia che però ha poi subito appoggiato Haftar.
Haftar (che ha la doppia cittadinanza: libica e statunitense), ai tempi fedelissimo di Gheddafi, è alla guida di un esercito rinforzato da mercenari russi (la compagna Wagner, notoriamente legata al Cremlino). È accusato di aver bombardato anche l’ospedale di Tripoli, di usare le micidiali bombe a frammentazione. Ha l’appoggio di Egitto, Emirati arabi e Arabia Saudita.
Per sostenere Serraj, a capo di un fragile governo in crisi, a sorpresa si è offerta invece la Turchia, con un accordo militare. E la contrapposizione che si è delineata (Turchia con Serraj, Russia con Haftar) non è un’inimicizia improvvisa tra Ankara e Mosca, ma un suggerimento di quello che potrebbe avvenire in un futuro prossimo: una spartizione sotto il controllo di Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin. Non c’è in ballo solo il controllo della Libia, ma di una parte del Mediterraneo.
E l’Europa? Non è altrettanto incisiva. La Francia vuol fare concorrenza all’Italia; appoggia Haftar perché lo considera vincente e lo chiama il “De Gaulle libico”. C’è voluto il buon senso della Cancelliera Angela Merkel per favorire un documento comune sulla Libia che mettesse insieme, con Berlino, anche Roma e Parigi. Perché oltre al problema dei migranti, un proliferare dei gruppi terroristici sarà la conseguenza dell’instabilità della Libia. Un interesse prioritario per Bruxelles.
A fine gennaio si terrà – sulla crisi libica – la Conferenza di Berlino. E la Merkel ha certo chiaro che con l’ingresso in scena della Turchia non vincono né Francia né Italia, ma perde l’Europa. Per ora l’Italia ha accumulato errori, ben oltre il black-out di otto mesi che ha riconosciuto Di Maio, con corretta autocritica perché al governo lui c’era. Ben oltre, perché già nel 2017 Mosca aveva chiesto, invano, all’Italia di coordinarsi insieme per aprire un dialogo diplomatico tra le fazioni libiche in guerra.
“Il bombardamento della Libia nel 2011 è stato un grande errore storico – dice ora Di Maio, ricordando la caduta di Gheddafi – ed averlo sostenuto è stato un grande errore dell’Italia. Noi eravamo i migliori amici della Libia. C’erano allora accordi per i quali le nostre aziende, in caso di bandi pubblici, partivano avvantaggiate nel punteggio solo perché italiane”. Silvio Berlusconi, da premier, fu così convincente nel 2004 con il dittatore Muammar Gheddafi da convincerlo che la giornata nazionale della vendetta contro gli italiani dovesse diventare la giornata dell’amicizia. Negli anni successivi in realtà i rapporti furono discontinui, forse anche perché Gheddafi, attento agli avvicendamenti italiani, pensava così di mantenere anche un buon rapporto con Romano Prodi che da Presidente della Commissione europea lo aveva invitato a Bruxelles. Prodi è stato l’unico avversario politico di Berlusconi a non essere sconfitto per vent’anni, ma era appunto un avversario solo politico, e Gheddafi non aveva nulla da temere nel avere buoni rapporti diplomatici con entrambi. Fatto è che l’Italia ha disperso (ma non del tutto) un patrimonio di buoni relazioni costruite per decenni, come del resto con tutto il mondo arabo. Il cedimento di Roma ad autorizzare l’uso delle proprie basi per i bombardamenti del 2011 ne ha compromesso la credibilità. Non perché la Francia – che appoggia Haftar per una cinica scommessa d’interesse – ne abbia di più. Ma l’Italia – dirimpettaia della costa libica – ha visto finire in ombra un ruolo privilegiato nei rapporti. Ne è consapevole Di Maio, che ha deciso di affiancare all’attività dell’ambasciata anche quella di un “inviato speciale”, figura più politica. Con quale strategia? Insistere sul sostegno a Serraj (che è a capo del governo che è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite) o riposizionarsi in quel ruolo di trattativa che era stato proposto a Roma da Mosca? Di Maio ha scelto la strada della mediazione in nome – ha spiegato – della vocazione e cultura al dialogo della diplomazia italiana. E non è un caso che nei comunicati ufficiali sulla sua missione si sia rimarcato che il tempo di colloquio con cui si è intrattenuto con Haftar è stato uguale – e forse superiore – all’incontro con il premier Serraj. Di Maio ha avuto buon gioco nella sua linea di equidistanza, che Serraj gli ha rimproverato, per l’accordo che Tripoli ha fatto con la Turchia per farsi proteggere. Serraj sostiene di essersi rivolto prima all’Italia per un aiuto militare, e solo dopo non averlo ottenuto ha chieso aiuto ad Erdogan. “Dovevamo forse lasciarci bombardare?” sarebbe stata la sua obiezione. Haftar, secondo quanto riferisce l’inviato di Repubblica Vincenzo Nigro, ha congedato il ministro degli Esteri italiano con il miele: “Se l’avessi conosciuta prima, forse oggi avremmo già firmato un accordo”.
Quella di Di Maio, che ha parlato di fatto anche a nome dell’Europa (e ha anticipato di voler ripetere la missione in Libia, ma proponendo che sia a guida europea), è stata una scelta di realismo politico. Con un vantaggio di posizione: Turchia e Russia chiederanno un conto che non sarà mai quello dell’Italia, che può proporsi negli affari commerciali come un partner alla pari, anzi un “facilitatore” di sviluppo. E l’intervento dell’Italia, ancora, può offrire stabilità. Quella stabilità che neanche i due finti nemici, Erdogan e Putin, sono in grado di garantire. Perché se Haftar dovesse entrare a Tripoli (ammesso che questo sia il suo obbiettivo reale) la capitale libica diverrebbe una polveriera nella guerra civile tra fazioni opposte. Un disastro che l’Italia – appoggiata dall’Europa – potrebbe disinnescare. Ed è sulla strada giusta.