di Roberto Mostarda
E’ sempre singolar tenzone, pur nel variare dei governi e delle maggioranze, tra l’Italia e l’Unione Europea, rectius tra il nostro paese e gruppi di altri partners continentali. L’Italia che è tra i sei paesi fondatori dell’Unione – quella dei popoli del dopoguerra di Adenauer, De Gasperi e Schuman – da diversi decenni appare quanto meno eccentrica rispetto al baricentro continentale rappresentato da Germania e paesi del nord e per certi aspetti anche dalla Francia, almeno sino a ieri. Un’eccentricità che si basa su diversi presupposti non ultimo quello di appartenere alla sponda mediterranea dell’Unione come la Spagna e la Grecia. Uno status che ha avuto diversi momenti storici segnati dai governi susseguitisi nel tempo, una condizione che vede oggi gli italiani estremamente e in maggioranza critici sulla collocazione europea dopo che per decenni siamo stati ed apparsi come la nazione più europeista in assoluto. Una realtà che peraltro è alla base della forte crescita di posizione populiste nel nostro paese, confusamente antieuropee. Perché esiste questa complessità, questa problematicità che si aggiunge alla cronica incapacità sia a livello statale che regionale e locale di fare sistema? La grande prova cui l’epidemia del coronavirus – ormai pandemia mondiale – sta sottoponendo il nostro sistema istituzionale, politico e sociale, potrebbe essere contemporaneamente un banco di prova e di resistenza, come anche un passaggio epocale per direzioni tutte da immaginare. Soprattutto l’economia – oltre alla salute e al sistema sanitario – è nell’occhio del ciclone!
Un tentativo di scoprire questo perché, come di analizzare i fattori che rendono l’Italia così squilibrata, viene fatto nel recente Rapporto Italia dell’Eurispes, il trentaduesimo, e nel volume “L’Italia del nì” a firma del presidente dell’Istituto Gian Maria Fara. Più Europei lo ha incontrato e gli ha posto alcune domande.
Presidente Fara, il caso Italia esiste sempre e continua a porre interrogativi in Europa. La pandemia da coronavirus sta ora sottoponendo ad estrema torsione il nostro sistema nazionale e locale. Nella sua analisi si parla di tre economie, anzi di tre Pil?
Quando parlo di un Paese con tre Pil, non mi riferisco ad una nuova scoperta. L’Italia, ormai storicamente, ha un Pil ufficiale di circa 1.600 Mld, un Pil sommerso di circa 540 Mld (che equivale a circa il 35% di quello ufficiale) e un Pil criminale che supera i 250 Mld. Il sommerso, nel corso degli anni, è stato il grande ammortizzatore sociale che ha consentito all’Italia di superare la grande crisi che si è aperta nel 2007/2008. Siamo di fronte ad un problema di c a rat t e re strutturale che potrà essere risolto solo attraverso una profonda riforma sul piano fiscale e la ricostruzione di un rapporto di fiducia tra Stato e cittadini.
E’ possibile parlare, nei confronti dell’Unione Europa, non di un’Italia, ma di più Italie che si confrontano con le istituzioni sovranazionali?
La nostra Costituzione affida alle Regioni grandi spazi e ampie competenze. Non sempre le Regioni hanno utilizzato i loro poteri in maniera intelligente e coerente con l’interesse nazionale. Spesso, abbiamo dato in Europa l’immagine di un Paese “senza progetto” che vive alla giornata. Perché il sistema Italia continua a non esistere e non funzionano i tentativi di costruirlo?
C’è stato un tempo in cui si poteva parlare di un Sistema Paese. Da tempo segnalo la separazione tra Sistema e Paese, che non sono più un tutt’uno, non viaggiano di conserva, si guardano in cagnesco. Insomma, vivono come due separati in casa.
Questa separazione indebolisce l’immagine e il ruolo, anche internazionale, dell’Italia. Occorre ricostruire questo rapporto, ricollegando cittadini e Istituzioni, superando gli egoismi localistici, la difesa di interessi corporativi, modernizzando la Pubblica amministrazione. Insomma, ricostruendo un rapporto di fiducia, senza il quale Sistema e Paese continueranno a viaggiare in direzioni diverse, con le conseguenze che è facile immaginare.
La crisi della politica nazionale e le contraddizioni sociali irrisolte stanno da due decenni indebolendo quella che una volta era tra le prime economie al mondo e che conserva ancora punti di forza e di unicità mondiale. Esistono rimedi ancora applicabili?
Siamo riusciti nel Dopoguerra a compiere il miracolo di trasformare un Paese povero e arretrato in una delle prime dieci economie mondiali. È stata, questa trasformazione, il frutto di politiche intelligenti, del lavoro di una borghesia culturale e imprenditoriale illuminata, del senso dello Stato di una classe politica che, indipendentemente dalle colorazioni, aveva come primo obiettivo l’interesse nazionale. Insomma, l’Italia aveva un progetto e lo ha perseguito con caparbietà. La gittata di quelle politiche si è esaurita così come la classe dirigente che l’aveva espressa. Noi abbiamo ereditato un Paese con grandissime potenzialità ma non riusciamo a trasformare la “potenza” in “energia”: è come vivere a 100 metri da una centrale elettrica e continuare ad illuminare la casa con le candele. Quale ruolo e con quali prospettive l’Italia può esercitare nel contesto europeo dopo l’emergenza e quale Italia potrebbe uscirne? O dovrebbe uscirne? Abbiamo ancora tempo? L’Italia deve ritornare ad essere protagonista in Europa e nel mondo, mettendo a frutto la cultura millenaria che possiede, valorizzando gli asset dei quali dispone, riscoprendo le vocazioni che la sua stessa collocazione geografica impone. Non possediamo materie prime, siamo un Paese di trasformazione.
In compenso, siamo un Paese di produzione di ingegno, di intelligenza e di creatività. Non esiste una cosa importante al mondo che non sia stata inventata dagli italiani: dal telefono, al motore a scoppio, alla plastica, al computer. Siamo portatori di saperi e di creatività: questi sono i capitali con i quali dovremo affrontare il “dopo virus”, che potrebbe rappresentare, per noi, un “nuovo Dopoguerra”, attraverso il quale scoprire una nuova solidarietà, un nuovo sentimento di appartenenza, un nuovo senso dello Stato e, se mi è consentito, riscoprire noi stessi e il nostro esserci nel mondo.