di Fabio Morabito
Chi rientrasse in Italia in questi giorni, dopo un viaggio lontano e distratto, e poi si mettesse a sfogliare i giornali dove si parla del referendum che confermerà (o abrogherà) il taglio dei parlamentari già approvato da Camera e Senato, resterebbe stupito dal dibattito in corso. Un dibattito intenso, anche di alto livello, molto netto nelle posizioni contrapposte, con toni perfino drammatici (“è in gioco la democrazia”) ma che sembra lunare, considerando che la legge costituzionale è passata in Parlamento con un crescendo impressionante di consensi e tra gli sbadigli dei media. Si tratta della legge costituzionale voluta dal Movimento Cinque Stelle. Un taglio “lineare”, senza modifiche delle competenze delle Camere, e senza essere accompagnato contemporaneamente da altre riforme (ma c’è l’impegno, e in realtà l’obbligo, di farle dopo). Il fatto che questo taglio sia un punto qualificante del programma dei “grillini”, a prescindere che poi sia stato condiviso da altri partiti, non è indifferente nella polemica in corso tra favorevoli e contrari.
In Senato (allora i Cinque Stelle erano al governo con la Lega) la riforma è passata con una buona maggioranza, ma inferiore a quella dei due terzi e questo ha reso possibile – come previsto dall’articolo 138 della Costituzione – raccogliere le firme di un quinto dei senatori per ottenere il referendum. Consultazione scivolata in calendario – per la pandemia – al 20 e 21 settembre prossimi. Alla Camera invece, al secondo passaggio obbligatorio di voto, intanto era sopraggiunta l’attuale alleanza di governo (il Pd al posto della Lega) e il consenso è stato trionfale. Anche il Partito democratico si è aggiunto al “sì”, giustificando il nuovo approccio con il mutato contesto e con l’impegno riformatore nel programma comune con i Cinque Stelle (saranno cambiati i regolamenti delle due Camere e naturalmente la legge elettorale). Al punto che appare evidente un paradosso: il taglio dei seggi è stato voluto in modo quasi plebiscitario da quello stesso Parlamento (o almeno dalla Camera dei deputati) che i sostenitori del “no” difendono nella sua versione “larga”.
Ci sono opinioni contrapposte su molti aspetti della questione e questo è anche stimolante, perché la politica (e non solo la politica) è fatta di chiaroscuri. Ma più sorprendente è che non ci sia accordo neanche su quello che dovrebbe essere un dato oggettivo, e cioè il risparmio sui costi dello Stato. Secondo il fronte del “sì” il risparmio è di cento milioni di euro l’anno, quindi mezzo miliardo nei cinque anni di una legislatura, tra spesa strutturale e risparmio indotto (ad esempio, i tanti viaggi dei parlamentari in missioni all’estero che spesso sono solo viaggi turistici).
Chi sostiene il “no” parla di un risparmio inferiore, “l’equivalente di un caffè all’anno per ogni cittadino” è la suggestiva obiezione dell’economista Carlo Cottarelli (due anni fa possibile premier di un governo tecnico). Tra i contrari alla riforma c’è chi osserva: allora perché non ottenere lo stesso risparmio tagliando invece gli stipendi dei parlamentari? Una cosa non esclude l’altra, e noi già ci auto-sforbiciamo i compensi, è la risposta pronta di Luigi Di Maio, non più capo politico dei Cinque Stelle (è stato sostituito da Vito Crimi) ma ancora il parlamentare più rappresentativo del Movimento fondato da Beppe Grillo. Del resto, i parlamentari italiani sono – come è noto – strapagati rispetto ai loro colleghi in giro per il mondo. Un nostro onorevole guadagna più del doppio di un suo collega francese, più di quattro volte di un collega spagnolo. Ma possibile che ci siano valutazioni diverse sulla consistenza di questo risparmio? Secondo un calcolo di Tito Boeri (ex presidente dell’Inps) e di Roberto Perotti (tre anni fa commissario per il governo alla Spending Review) la cifra corretta viaggia tra gli 80 e i (massimo) cento milioni l’anno sommando il taglio complessivo di 35 milioni di rimborsi spese, 22 di indennità, 20 di vitalizi e doppie pensioni, poi diaria, assistenti, e costi variabili d’ufficio. Secondo i calcoli di Cottarelli il risparmio ammonta invece a 57 milioni l’anno. Il che equivarrebbe allo 0,007% della spesa pubblica. Zero virgola altri due zeri, quanto basta per dire: irrilevante. La tabella più curiosa, sui costi della politica, l’ha ricavata Il Fatto Quotidiano, calcolando che ogni deputato costa a ogni cittadino italiano 16,2 euro; in Germania, 14,1 euro per ogni tedesco. In Francia 7,7; in Spagna neanche due euro l’anno (1,8). La riforma – sottolinea il quotidiano – ridurrà i costi attuali del Parlamento (in tutto, 1,52 miliardi) del 6,6%, equivalente a cento milioni l’anno.
Poi c’è l’aspetto definito “populista”, che blandisce la diffidenza dei cittadini verso i politici: per i contrari alla riduzione dei seggi (che passerebbero da 945, tra Camera e Senato, a 600, esclusi i senatori a vita), assecondare la riforma è una resa alla cosiddetta “antipolitica” di cui i Cinque Stelle sono considerati l’incarnazione. Per i favorevoli alla nuova legge, ma che si collocano a distanza dai simpatizzanti del Movimento, una riforma si giudica per quello che è e non per chi la propone o l’ha fortemente voluta. E quindi per i vantaggi che comporta, che per loro sarebbe una presunta maggiore efficienza di Camera e Senato. Si osserva, poi: il ruolo del Parlamento va rimodulato anche nei numeri perché è cambiato, perdendo competenze “sotto” (le Regioni, introdotte nel 1970) e “sopra” (l’Europarlamento). E ancora perché la riduzione dei seggi non nasce con i Cinque Stelle ma è stato obbiettivo (teorico) negli ultimi 40 anni di forze politiche che vanno dai liberali e conservatori agli ex-comunisti.
Quasi sempre la proposta di riduzione dei seggi è avvenuta in passato in un contesto più ampio o diverso ad esempio come effetto dell’abolizione del Senato come è oggi. Il Senato è effettivamente un “doppione” della Camera, ma è stato voluto così nella Costituzione per blindare – imponendo più passaggi – la democrazia rinata dopo il fascismo. Ma nel nuovo secolo c’è almeno un precedente che anticipò nelle intenzioni l’attuale riforma: nel 2008 alcuni senatori del Pd – tra cui Anna Finocchiaro, oggi non più parlamentare e schierata per il “no” – proposero proprio il semplice taglio lineare dei parlamentari (per arrivare esattamente a 400 deputati e 200 senatori). Un’altra critica alla legge approvata in Parlamento è proprio questa: che non è accompagnata dalle riforme necessarie (come la nuova legge elettorale), e che semmai queste sarebbero dovute essere fatte prima, e non dopo (ma la discussione di quello che è stato chiamato modello “germanicum”, perché è sulla falsariga del sistema di voto tedesco, è stata messa in programma da Cinque Stelle e Pd pochi giorni dopo il referendum). Chi sostiene il “sì” può controbattere che a far rinviare l’accordo è stato un altro gruppo di governo (Italia Viva di Matteo Renzi) e che intanto si cominci, altrimenti questo “taglio” non si farà mai.
Il fatto che i cittadini possano esprimersi solo sul taglio è considerato un elemento di chiarezza. E c’è una sentenza della Consulta del 1978 che bocciò un referendum abrogativo di decine di articoli del Codice penale, perché i quesiti devono essere chiari e non mettere insieme troppe cose, e diverse. Le altre riforme, come la modifica dei regolamenti parlamentari, oppure la nuova legge elettorale, possono essere successive. Del resto, leggi elettorali ne sono state fatte tante, e la prossima non sarà l’ultima. Quindi non può essere considerato un male che la Costituzione detti la linea. Anzi, c’è tra i costituzionalisti (Carlo Fusaro) chi lo considera un passaggio logico: la legge ordinaria segue la riduzione, non la precede.
Ci sono elementi psicologici tra i sostenitori del “sì”: i parlamentari meno saranno e più verranno indotti a lavorare meglio. Si osserva che si taglia un terzo dei parlamentari, percentuale che corrisponde agli assenteisti “cronici”. Ma non c’è da illudersi che deputati e senatori lasciati fuori siano proprio quelli che al lavoro non vanno mai. Poi, si sostiene: la riforma restituirà credibilità alla politica. Ma anche questo è un argomento “psicologico”, indimostrabile. C’è chi in questi giorni ha ricordato uno dei Padri costituenti, il liberale Luigi Einaudi (è stato anche Presidente della Repubblica) che parlava dei Parlamenti affollati come di un ostacolo, ma nessuno ricorda a quali numeri si riferisse. Tra chi ha già scelto per il “no” c’è chi sostiene che viene svalutato il ruolo del Parlamento. Che le Camere non funzioneranno meglio, anzi. Che la rappresentanza delle minoranze, che si infilava nel Parlamento dei grandi numeri, rischia di rimanere fuori (ma qui conta di più la soglia di sbarramento – cioè la percentuale minima per ottenere seggi – nella legge elettorale). Che tutto il potere va ai capi-partito (ma senza il voto di preferenza non è già così?). Che il taglio si può fare, ma non in questa maniera: troppa fretta, ed è uno scalpo offerto al populismo e alla propaganda. Con meno parlamentari si schiacciano le differenze. Con meno parlamentari – si osserva ancora – non è detto che vengano eletti i migliori.
Le ragioni del “sì” e del “no” dividono i costituzionalisti, e questo perlomeno rassicura sul fatto che non ci siano depositari di verità assolute neanche su questo tema.
Poi ci sono i costituzionalisti fai-da-te (cioè non studiosi di diritto, ma opinionisti sciolti) che accusano questa riforma di tradire lo spirito originario della Carta; ma alle elezioni del 1948 i seggi assegnati sono stati 811 e i due attuali numeri (630 alla Camera e 315 al Senato) sono stati introdotti nella Costituzione nel 1963. Giulio Andreotti annotava che il Senato faceva lo stesso lavoro della Camera con la metà dei parlamentari. C’è poi il conteggio dei deputati nei vari Paesi europei che, a seconda dei criteri usati (ad esempio, parlamentari eletti oppure eletti più membri di diritto) ci farà trovare l’Italia tra i primi o tra gli ultimi posti. Naturalmente, classifiche ad uso e consumo di tesi precostituite. C’è chi ricorda che anche Germania e Francia stanno ragionando su una riduzione dei parlamentari. Il Presidente francese Emmanuel Macron ne aveva fatto uno degli obbiettivi del suo mandato, e un progetto di legge – non ancora approvato – del governo prevede infatti la riduzione dei deputati dell’Assemblea nazionale da 577 a 404. Gli Stati Uniti hanno cento senatori in tutto, i deputati della Cina arrivano quasi a tremila, e questo basta a suggerire che non è il numero dei parlamentari a garantire la democrazia.
I Cinque stelle, se il referendum rispetterà i pronostici che vedono ampiamente la vittoria del “sì”, si aggiudicheranno (peraltro, a ragione) il merito dell’eventuale successo, ma nel frattempo dovranno constatare anche il disastro – anche questo altrettanto probabile- dei consensi che riceveranno alle Regionali. Dare sempre un significato di consenso o meno al governo, quando il quesito è un’altra cosa, è un vizio dell’esasperazione politica che non c’entra nulla con questo referendum. Quello che poi sembra sfuggire a molti osservatori è il disinteresse dei cittadini. Gli elettori percepiscono la questione magari come importante, ma certamente di secondo piano rispetto a tutto quello che sta succedendo adesso.
E dove si voterà solo per il referendum l’affluenza sarà un indicatore abbastanza chiaro su quanto siano veramente coinvolti gli italiani da questo tema.
Fabio Morabito