di Fabio Morabito
Il caso italiano è così particolare che gli osservatori europei possono far fatica a comprenderlo. E Luigi Di Maio, capo politico dei Cinque Stelle e protagonista di primo piano di queste settimane post-voto, è a maggior ragione difficile da decifrare, se non si spiega il contesto nel quale il suo successo va inserito.
Gli italiani lo avevano cominciato a conoscere cinque anni prima come uno dei nomi emergenti da quella grande massa indifferenziata che si era riversata in Parlamento già nelle elezioni politiche del 2013: il Movimento Cinque Stelle ottenne un voto su quattro, un successo oltre le previsioni, ma senza aver espresso fino a quel momento leader che fossero conosciuti se non dagli stessi militanti. Con la sola eccezione di personalità che, per un motivo o per l’altro, sarebbero rimasti in tribuna. Fino a quel momento si conosceva Beppe Grillo, il comico diventato leader politico, che aveva fondato e fatto crescere il Movimento. Grillo però non si è mai presentato candidato. Un doloroso fatto di vita, aver provocato involontariamente un incidente mortale alla guida di un suv, lo aveva visto condannato e quindi messo automaticamente fuori dalle stesse regole che il neo-gruppo si era dato: niente incarichi con una condanna passata in giudicato, sia pure per un delitto colposo e non doloso.
Fino a quando alcuni esponenti del Movimento non si sono via via messi in luce, dei Cinque Stelle si conoscevano solo gli animatori senza poltrona (oltre a Grillo l’altro fondatore, il teorico Gianroberto Casaleggio) oppure i sostenitori famosi ma fuori dall’impegno diretto (come il premio Nobel Dario Fo). Di Maio è stato uno dei primi nomi, benché giovanissimo per la politica italiana, ad apparire sotto i riflettori, perché è stato indicato dai suoi compagni di viaggio come vicepresidente della Camera. Aveva 26 anni quando venne eletto, il più giovane parlamentare di sempre in quel ruolo. Quindi inserito subito nelle istituzioni. La sua gavetta. Poi è stato indicato dai Cinque Stelle come candidato premier, dopo essere stato scelto da una votazione online tra gli iscritti che è stata oggetto di polemiche, sia per le dimensioni ridotte dei partecipanti (neanche 31mila preferenze accreditate al vincitore), sia perché gli altri candidati erano sconosciuti, e quindi di fatto entrati in pista senza chance. Gli altri nomi che nel frattempo si erano fatti conoscere sul palcoscenico nazionale, da Roberto Fico a Alessandro Di Battista a Roberta Lombardi, si sono tenuti fuori lasciando campo libero a Di Maio. Che nei fatti è stato probabilmente scelto da Beppe Grillo. E le votazioni online sono state solo il sigillo di una consacrazione già avvenuta e già nota a tutti prima ancora del voto.
Fatto è che Di Maio, uomo di poca accademia (è studente universitario fuori corso) e di poca pratica (lavori brevi e precari), si trova catapultato in politica da protagonista con l’apparente virtù di un aspetto ordinato, completo grigio e impeccabile nodo alla cravatta, proprio i requisiti più lontani dall’immagine originale dei contestatori di Beppe Grillo. Da candidato ha evitato scontri e confronti con altri leader, forse non sentendosi pronto. Ma ha tranquillizzato tutti, Europa in testa, sulla moderazione che intende mettere in campo.
Chiuse le urne, con il Movimento nettamente vincitore come formazione singola (ma superato dal centrodestra come coalizione), Di Maio si muove con senso pratico ottenendo la poltrona di Presidente della Camera per Roberto Fico, risultato reso possibile solo da un accordo. L’intesa con Matteo Salvini, leader della Lega ma anche della coalizione del centrodestra, funziona e forse illude un po’ sulla facilità di arrivare a un governo comune. Di Maio se la cava bene anche nel confronto con i giornalisti della Stampa estera, dove svicola però a una domanda: cosa succederà con il limite dei due mandati a cui sono vincolati gli eletti dei 5 Stelle se la legislatura si concludesse in anticipo? Di Maio elogia la regola dei due mandati ma non risponde. Rispondiamo noi per lui: se la legislatura si concluderà nel giro di un anno, il secondo mandato verrà considerato ancora da fare, e probabilmente le liste dei 5 Stelle verranno confermate in blocco, fatte salve le uscite volontarie o le sopraggiunte cause di incompatibilità (mancato rispetto delle regole interne, espulsioni, eccetera).
Ma certo il nodo dei due mandati si rivela improvvisamente stretto: Di Maio è già al secondo mandato, e se non sopraggiungerà un cambio delle regole, per lui la partita politica è ora o mai più. Questa è una delle tante differenze del caso italiano, rispetto alle nuove realtà politiche che si sono affermate in questi anni in Europa e che sono state classificate insieme come populiste e che non hanno un Grillo dietro le quinte. Un’altra è appunto la mancata identificazione, agli occhi degli elettori, del Movimento con il suo capo politico. Il movimento spagnolo Podemos, altrettanto rapido nello scalare consensi, ha in Pablo Iglesias Turrion il suo leader operativo, e quindi seduto in Parlamento. Nigel Farage è stato alla guida dell’Ukip (il Partito per l’indipendenza del Regno Unito) fino al risultato raggiunto, e cioè la vittoria nel referendum della Brexit.
Di Maio quindi è un leader – almeno con le attuale regole interne del Movimento – provvisorio. In scadenza. Forse anche per questo in questi giorni si è esposto con insistenza sostenendo di voler essere lui il Presidente del Consiglio designato, perché – è la sua tesi – in questo ruolo lo hanno scelto e votato in massa gli italiani. Ma le cose non stanno così. Il successo dei Cinque Stelle è conseguenza di quello che rappresenta, non per il suo capo politico momentaneo, il cui nome non è stato messo nel simbolo come invece hanno fatto tutti e tre gli “storici” partiti del centrodestra, legandosi ciascuno al proprio leader: Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. E la Costituzione, difesa con forza dai “grillini”, prevede che sia il Presidente della Repubblica a designare il Presidente del Consiglio.
L’ostinazione di Di Maio sul proprio nome complica i margini di manovra, già resa difficile dalla scarsa compatibilità delle promesse elettorali dei due aspiranti alleati. L’abolizione della Legge Fornero, promessa dalla Lega, è assai più pesante in prospettiva di bilancio del reddito di cittadinanza promesso dai Cinque Stelle. Insieme, sono provvedimenti incompatibili perché farebbero saltare il banco. La strada, allora, è quella maestra del compromesso: un programma graduale, che preveda ritocchi alla Fornero e un primo approccio al reddito di cittadinanza. Ma se a un programma comune alla fine si può arrivare, se un governo M5S-Lega è possibile con Forza Italia esclusa (è un altro veto dei Cinque Stelle), o relegata ad appoggio esterno magari accontentando Berlusconi solo con ministri di area, Di Maio deve saper rinunciare a dirigere lui l’orchestra, magari in favore di un nome non fortemente caratterizzato. In questo Salvini, che non è “in scadenza” perché senza vincoli di mandato, sta dando lezioni di duttilità. Di Maio deve essere disposto a un sacrificio che era già in conto prima del voto, e fare le sue scelte, senza paura di farle.