Il finale difficile di Conte, tornato ad insegnare

di Antonella Blanc

È un arrivederci non è un addio, Giuseppe Conte accompagnato alle dimissioni da una trappola che pure aveva fiutato, torna a insegnare come docente universitario di diritto privato a Firenze. Ma lascia una porta aperta: “Si può fare politica in tanti modi”. E dichiara di essere al servizio di un progetto che stabilizzi un’alleanza tra Cinque stelle, Partito democratico e Liberi e uguali. Insomma, si pone come “federatore” del centrosinistra, se si volesse imitare l’alleanza del centrodestra. Ma intanto l’avvocato e professore pugliese, diventato premier, lascia il passo. La sua lunga parentesi politica resterà un fatto eccezionale nella storia della Repubblica. Non aveva avuto nessun incarico politico prima, anche se il suo nome era apparso nella lista dei ministri che Luigi Di Maio aveva reso pubblico poco dopo essere stato nominato – dalla consultazione web – capo politico e candidato premier del Movimento Cinque Stelle in vista del voto delle elezioni 2018.

Giuseppe Conte a Palazzo Chigi
l’ex presidente del Consiglio durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi

A Conte era affidato, in questo foglietto già recapitato in modo poco istituzionale dal Movimento al Quirinale, il ministero della Deburocratizzazione e la meritocrazia (mai diventato realtà). Da tecnico, perché Conte non era candidato al Parlamento, e ai Cinque stelle non è mai stato iscritto. Però nell’occasione della presentazione della lista dei ministri ammise che avrebbe votato Cinque stelle dopo aver scelto in passato Partito democratico. Quando ci fu l’intesa tra Movimento e Lega per formare il governo (sono state le liste più votate) i due leader, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, i rispettivi candidati premier, decisero entrambi per il ruolo di vicepremier e che l’incarico sarebbe andato a una figura non altrettanto esposta. Conte andava benissimo, e l’incarico fu affidato a lui. Andò a piedi al Quirinale a ricevere l’investitura. Come si ricorderà ci fu una prima rinuncia, perché il Presidente Sergio Mattarella pose un veto sul nome di Paolo Savona (considerato troppo “antieuro”) all’Economia, e i due alleati si impuntarono. Conte quindi rinunciò all’incarico. Mentre Luigi Di Maio tuonava contro Mattarella chiedendone l’impeachment (niente meno), il più esperto Salvini si guardava bene da ipotizzare reati del Capo dello Stato, pur naturalmente criticando la scelta fatta. L’unico che aveva diritto di lamentarsi, per Costituzione, è colui che propone i ministri, e cioè il primo ministro incaricato. Conte invece non ci pensò proprio. Con eleganza ringraziò pubblicamente Mattarella, e si allontanò forse pensando di aver chiuso la sua avventura prima di averla cominciata. Invece non fu così.

Alla fine gli alleati trovarono una soluzione: all’Economia andò Giovanni Tria, indicato dal Quirinale (un tecnico, quindi) e a Savona, che poi è un altro tecnico, gli Affari europei. Conte divenne primo ministro, ma liquidato dagli osservatori come una figura opaca manovrata da Salvini e Di Maio. “Sono un mediatore” disse, annunciando quello che avrebbe fatto benissimo, riuscendo a governare prima con la Lega e poi con il Pd, e passando da manovrato a manovratore. Nel primo governo, gli attacchi che gli vennero fatti dalle file del Partito democratico furono molto duri. Domenico Del Rio, poi suo sostenitore, ma allora suo avversario, lo descrisse come un burattino. Ma il “mediatore” si fece strada, anche in Europa dove pure era stato accolto come un oggetto misterioso, superando un primo scontro con Emmanuel Macron e la Francia sulla gestione dei migranti.

Con il secondo governo, con l’alleanza ribaltata (dalla Lega al Pd, alleati ai Cinque Stelle) riuscì a Conte l’impresa, e cioè di restare al ponte di comando. Mentre Draghi ha messo insieme Lega e Pd ma solo dopo un “appello” del Presidente della Repubblica, e in circostanze diversissime, Conte si è trovato a diventare l’unico “punto di equilibrio” nell’alleanza di centrosinistra rimasta dopo le dimissioni delle ministre Bellanova e Bonetti di Italia Viva (il partito fondato da Matteo Renzi, appena insediato il governo Conte 2, con una scissione dal Pd). Alla prova della fiducia Conte riesce a superarla, ma al Senato non raggiunge la maggioranza assoluta (la metà più uno degli aventi diritto) ma solo quella relativa (la metà più uno dei voti validi, considerando ininfluenti gli astenuti). In passato non sarebbe bastato, ma il regolamento del Senato è cambiato e quindi sarebbe potuto andare avanti.

Ma Conte si è infilato nell’avventura di reclutare consensi tra quelli che sono stati via via chiamati come “responsabili”, “costruttori”, per l’opposizione “voltagabbana”. Una ricerca logorante, anche perché non tutti sono anime candide e alcuni cercano una gratifica per la loro conversione (una poltrona, non necessariamente nel governo ma anche in qualche ente pubblico). Alla fine capitola e dà le dimissioni con l’intesa che gli alleati fedeli avrebbero di nuovo proposto il suo nome per guidare un terzo governo. E in effetti tutti ripetono la stessa formula, solo Conte e niente altro che Conte. “Unico punto di equilibrio” lo definiscono. Ma il percorso era tracciato. Italia Viva rilanciava sempre, i “responsabili” non erano in numero sufficiente, Forza Italia restava alla finestra senza offrire un sostegno che era stato chiamato “Alleanza Ursula” (cioè un governo tra i partiti che in Europa votarono alla Presidenza per la tedesca Ursula von der Leyen). Quello che tutti sembravano rifiutare, un governo tecnico guidato da Mario Draghi, ha fatto il (quasi) pieno di consensi lasciando posti in piedi. E Conte da uomo solo al comando è stato dimenticato in un sospiro. Il suo.

Non ha rinunciato però all’uscita mediatica, con stile. Filmati gli applausi dei dipendenti di Palazzo Chigi, affacciati alle finestre (non è però un inedito) Conte ha salutato con un roteare delle mani, cercando poi la mano della fidanzata ufficiale Olivia Paladino, e uscendo con lei dal Palazzo. In una dissolvenza che significa: lascio la visibilità pubblica, ora torno nel privato, in famiglia. Dopo aver bevuto il miele, ma anche il veleno, della politica.

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