di Fabio Morabito
Ci mancava – eppure è successo – che venisse mobilitata l’Unione europea per l’idea di un gruppo di società di calcio di sfidarsi in un campionato europeo parallelo di calcio, la “Superlega” (solo club che si presume blasonati, come iscritti fissi, più alcuni ad invito a seconda del rendimento del momento).
La vicenda è stato il titolo d’apertura dei telegiornali, e il 20 aprile la grande vetrina della stampa (in Italia, pagine e pagine su questo annuncio). È stata la Francia il primo Paese a chiedere addirittura una direttiva dell’Unione europea in merito. Primi ministri (anche Mario Draghi) sono – è il caso di dirlo, dato l’argomento – scesi in campo. Dichiarandosi come minimo preoccupati. Bruxelles è allertata. E coinvolta. Ma perché? Si tratta di una iniziativa di alcune società private, discutibile ma legittima e comunque di competenza di quel mondo – lo sport – che quando cambia regole e modalità si organizza da solo. Lasciamo perdere poi la valanga di parole di tutto il pianeta politico che gravita intorno allo sport, in nome della purezza degli ideali e del merito. La stessa politica che, per intenderci, non si preoccupa che ogni scuola abbia una palestra, che ci sia la possibilità per tutti di praticare sport e diventare se si vuole e si può dei campioni, altrimenti anche solo liberi di accedere a una vita più sana.
La prima cosa che non emerge, dalle tante chiacchiere, ma insita in sé, è che si tratta di un grande bluff. Almeno per ora. Ci sono troppe società in mano a proprietà straniere, che spingono a un’idea del calcio modello Nba – il basket Usa – ma che non sono un “modello europeo”.
Società in mano straniera? Diciamo in buona parte anche in mano statunitense, perché dietro le quinte di alcuni club ci sono fondi d’investimento americani, come l’Elliott Management Corporation che, a furia di prestiti, è il vero proprietario del Milan. E in Italia c’è un fondo Usa (non si sa ancora quale) che sta subentrando al comando dell’Inter, mentre la Juventus è proprietà degli eredi Agnelli, che però non hanno niente a che fare con la fede tifosa del loro avo Gianni ma sono impegnati ovunque a fare cassa. Con il club per ora fanno debiti: ecco la caccia a una via d’uscita. Juventus, Milan e Inter sono infatti i tre club italiani che hanno già aderito al progetto.
Il bluff consiste nel fatto che si sta parlando di una cosa che oggi come oggi non si può realizzare. Perché la valanga di miliardi di finanziamento che le società sognano sono appunto un sogno, nonostante lo strombazzato finanziamento iniziale di un gigante finanziario (naturalmente, americano) di 3,5 miliardi di euro. Si tratterebbe di un torneo diviso in due gironi, quindi con un alto numero garantito minimo di partite prima dell’eventuale eliminazione, che impegnerebbe club famosi e – per questo – con un seguito di pubblico importante. Club che si sfideranno – nelle intenzioni – fra di loro lungo tutto l’anno. Ma giocare questo torneo significherebbe non partecipare alla Champions League e – minacciano le istituzioni del calcio – neanche ai campionati nazionali. Scenario non realistico. Una manifestazione del genere raccoglierebbe soldi all’inizio (perché la platea a cui venderlo in tv sarebbe il mondo intero) ma perderebbe il legame con i propri tifosi, che vedrebbero il loro amato club ridotto al rango di una squadra di vecchie glorie, impegnata a giocare in giro per l’Europa ma senza più platea nazionale e fuori dalla vera competizione europea, la Champions League.
Un bluff, perché l’impressione è che queste società abbiano fatto uscire mediaticamente il progetto – che, si dice, si sarebbe voluto tenere segreto per qualche mese ancora – proprio per fare pressione e per farsi concedere qualcosa di più per non lasciare il giro che conta. La Ferrari tante volte ha fatto uscire la voce che sarebbe uscita dalla Formula Uno, ma non è successo mai.
Sempre si sono fatte manifestazioni di squadre blasonate, di supervincitrici, ma chi se le ricorda più? Una volta c’era un torneo anglo-italiano di club, tante volte sono state fatti tornei di nazionali cariche di titoli e di gloria, passerelle dimenticate. I più appassionati ricorderanno il Mundialito, che sembrava una caricatura già dal nome. Ma quel che conta sono i tornei veri: Mondiali di calcio, Europei e Olimpiadi per le nazionali e Champions League per i club. Già l’Europa League per club è un torneo di consolazione.
Il calcio è sport da vetrine così collaudate che un torneo di star non può brillare a lungo. Se poi si va a guardare le iscritte di diritto non è il salotto vip del calcio. Senza Bayern di Monaco (che non ha accettato la proposta, come nessun club tedesco) è un flop. E la Juventus – non si offendano i tifosi bianconeri – vanta solo due Coppe dei Campioni, quante ne ha vinte il Nottingham Forest, squadra della seconda divisione inglese, che naturalmente resta fuori.
Ma perché – al di là di quanto ridicolo sia, soprattutto di questi tempi, che l’Unione europea si possa dar da fare per disinnescare l’iniziativa – tutto questo tocca l’Europa? Perché l’Europa non c’è in questo circo. Tra le dodici iscritte di diritto (e quindi nelle intenzioni per sempre, senza doversi qualificare in qualche modo) ci sono tre squadre italiane, tre spagnole (Real Madrid, Barcellona e Atletico Madrid), e sei – addirittura sei – inglesi. Club inglesi, attenzione, non britannici. Tra cui autentici usurpatori, come il Tottenham e l’Arsenal (rispettivamente settimo e nono attualmente in campionato) che avranno pure un nome conosciuto ma la Champions League non l’hanno vinta mai.
Quindi un torneo del genere direbbe che nel calcio l’Europa è l’Inghilterra, che dell’Unione europea non fa più parte. Il che non piace neanche al premier britannico Boris Johnson, tra i subito contrari all’iniziativa. Un pasticcio. Che si vorrebbe far partire dal prossimo anno. Ci riusciranno? No, e sarà meglio per tutti. Anche per quei fondi d’investimento che pensano di riscattare i debiti accumulati tirando un bidone ai tifosi. Con il cinismo di chi vede il calcio solo come una calamita di profitti ma poi ha scoperto essere anche un pozzo di spese.