di Fabio Morabito
È un simbolo, e molti l’hanno trattata come simbolo nel raccontarne la caduta. Con paragoni, metafore, iperboli. La cattedrale di Notre-Dame, Parigi, la chiesa più visitata al mondo (si sostiene infatti che lo sia anche più di San Pietro) è stata martoriata da un incendio, nel pomeriggio di lunedì 15 aprile; un incendio che ne ha divorato la caratteristica guglia di legno, che s’innalzava da quasi cento metri da terra, che era poi il simbolo della cattedrale simbolo. Distrutta.
Ha preso fuoco quando mancavano pochi minuti alle sette della sera, e i pompieri (quattrocento) sarebbero arrivati in ritardo. Non avevano una scala per raggiungere quell’incendio così in alto, e come avviene in Italia, e in qualsiasi Paese moderno quando si è attoniti di fronte a un disastro le polemiche sono diventate un processo immediato. Perché i soccorsi sono stati così lenti? Perché non ha funzionato se c’era il sistema antincendio? Non era possibile scaricare l’acqua dagli elicotteri, come si fa con i boschi in fiamme, perché la violenza dell’impatto avrebbe danneggiato la struttura della chiesa che poi nonostante ore di fuoco non è crollata. E la sensazione che i soccorsi siano stati impotenti, ora che siamo nel Ventunesimo secolo, suggerisce inadeguatezza rispetto al dovere di difendere la bellezza.
Alle cinque del mattino si è spento l’ultimo fuoco. Quasi subito si è esclusa l’origine dolosa dell’incendio a differenza dell’attentato che nel 1996 a Venezia distrusse il teatro La Fenice e questo non rassicura, perché vuol dire che è stato possibile che non si sia fatto abbastanza. E che i lunghi lavori di restauro cominciati da pochi mesi e in ritardo con un assegno di due milioni di euro e la promessa di 150 milioni da spendere, non fossero stati programmati con la cautela necessaria. È un po’ difficile e troppo consolatorio parlare di fatalità. E di fatalità non vogliono sentire parlare un architetto come Renzo Piano (c’era un cantiere, e i cantieri devono essere sicuri) o uno storico dell’arte come Philippe Daverio che avverte: bastava spendere, bastava mettere degli estintori automatici. E il legno non era protetto come sarebbe stato saggio da materiale ignifugo. Naturalmente, c’è anche come succede sempre in questi casi chi aveva messo in guardia, tempo prima, del rischio a cui era esposto questo monumento con un’anima di legno. Che si è devastato in diretta tv sotto gli occhi del mondo. Un incendio di ore dove la tecnologia aiuta a vedere. Ma non a evitare, fermare, impedire.
Naturalmente, anche un dramma così va raccontato in un contesto.
La guglia neogotica era già un rifacimento della seconda metà dell’Ottocento. Sì, è vero che la cattedrale è sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale, ma quando Victor Hugo nel suo Notre-Dame de Paris, raccontò del gobbo e deforme Quasimodo che porta in salvo la bella gitana Esmeralda nascondendola nella chiesa, quello che oggi è il monumento simbolo della Francia aveva già le sue ferite, le ingiurie subite, i crolli e i saccheggi. La Rivoluzione francese era stata la più spietata nel distruggere, decapitando le statue replicando sull’arte la violenza della ghigliottina.
Un incendio divampato tra le impalcature dei lavori di restauro sembra una beffa, il colmo dell’incuria. Una scintilla basta a distruggere un monumento, e la prima richiesta d’intervento, scambiata per un falso allarme, ha tolto una ventina di minuti di tempo, quanto forse bastava per scongiurare tutto. In poche ore sono arrivate donazioni per oltre 600 milioni, quando per stanziarne i 150 del restauro c’era voluto chissà quanto. Resta lo stupore del mondo, il dolore collettivo, i pianti dei pompieri dentro la cattedrale ferita, il susseguirsi di emozioni e di retorica, e alla fine i proclami: “La ricostruiremo in cinque anni, e sarà più bella di prima” ha promesso il presidente Emmanuel Macron. Tra cinque anni ci saranno le Olimpiadi a Parigi, viene naturale pensare che sia stata questa la sua preoccupazione.
Parlare di questo disastro come di un’Apocalisse, la disfatta della Francia pagana, la mortificazione dell’Europa cristiana, è un esercizio stucchevole, e forse anche una violenza sulle cose, perché il mondo è un susseguirsi di tragedie, e questo monumento cristiano e laico allo stesso tempo potrà essere ricostruito. Ancora una volta. Ma il dramma e l’impotenza durati oltre nove ore di fuoco, suggeriscono il sentimento di rinascita che sembra aver scosso il sentire comune.
L’arte, quando è preziosa come la cattedrale di Notre-Dame, non è la proprietà di un solo Paese ma è un patrimonio collettivo.
Simbolo di Francia, o di Europa perché qui si sposarono i regnanti dei Paesi che dominarono il continente, anche questo è un discorso che non racconta tutto: la Storia è più complessa.
Ma l’Europa è uno scrigno di passato e bellezza, e questa constatazione così ovvia è più unificante di tante considerazioni sui mercati comuni o scorciatoie finanziarie. Le sue “radici cristiane”, tanto discusse, difese o ripudiate, sono un fatto storico e non una sopraffazione religiosa.
E la volontà di ricostruire è una reazione vitale: perché è quando si rischia di perdere qualcosa ne capiamo l’importanza e la necessità. E l’energia della ricostruzione diventa dopo il fuoco che ha distrutto finalmente una luce che non brucia.